Beyond 6851 Inviato 23 Novembre, 2012 la mia dipartita Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Alex_Ferrari 3307 Inviato 23 Novembre, 2012 (modificato) era un post di sole faccine,ora non lo è più Modificato 23 Novembre, 2012 da Alex_Ferrari Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Visitatore Rhobar_III Inviato 23 Novembre, 2012 Vorrei rispondere alle argomentazioni di Mito Ferrari Considerazione. Nella tua firma Mito Ferrari è nella ignore list. Domanda. Come fai a rispondere alle sue argomentazioni se è nella ignore list? Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Rops 14 Inviato 23 Novembre, 2012 Sto topic è diventato di una tristezza assurda, il topic si chiama Spam, la sezione si chiama Spam, eppure non si può spammare, bea m***a. Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Ferrarista 1707 Inviato 23 Novembre, 2012 perchè, io che sto facendo? Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Beyond 6851 Inviato 23 Novembre, 2012 Sto topic è diventato di una tristezza assurda, il topic si chiama Spam, la sezione si chiama Spam, eppure non si può spammare, bea m***a. è quello che credi tu Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Mito Ferrari 1035 Inviato 23 Novembre, 2012 Vorrei rispondere alle argomentazioni di Mito Ferrari Sarò breve e sintetico: A Stagira, una cittadina della penisola Calcidica, nasce un giovane, figlio del medico personale del re di Macedonia. All’età di diciassette anni, rimasto orfano, si trasferisce ad Atene ed entra nell’Accademia di Platone, dove incomincia a studiare, con pieni risultati, tutto ciò che riguarda il campo del sapere matematico e astronomico. Durante l’assenza del maestro, Aristotele si avvale dell’insegnamento di Eudosso di Cnido.Dopo la morte del maestro, avvenuta nell’anno 347, il filosofo stagirita lascia la scuola di Atene per trasferirsi ad Atarneo. Qui conosce e diviene amico di Teofrasto, col quale, qualche anno dopo, si trasferisce a Mitilene nell’isola di Lesbo, per dedicarsi a ricerche di carattere biologico.Dalla professione del padre, Aristotele riceve probabilmente un incentivo verso l’interesse per le scienze della natura che rimase costante in tutta la sua attività di ricerca.Nel 343 Filippo di Macedonia offre ad Aristotele l’incarico di sovrintendere all’educazione del figlio Alessandro. Nella località di Mieza, Aristotele svolge abilmente il suo compito di precettore del futuro Alessandro Magno, trovandosi così in rapporto diretto tra la nuova monarchia emergente nel mondo greco, e la tradizionale cultura delle città elleniche.Dopo l’assassinio di Filippo di Macedonia, Alessandro sale al trono, trovandosi, in giovane età, a dover fronteggiare una rivolta antimacedone, che porterà alla distruzione della città di Tebe. In questo periodo Aristotele torna ad Atene e fonda una scuola propria, un ginnasio pubblico posto sul colle del Licabetto, chiamato Liceo, poiché aveva sede in un luogo sacro ad Apollo Licio. E’ qui che il maestro tiene le sue lezioni, sia di tipo specialistico sia per un pubblico più vasto. Ai numerosi giovani che frequentano le sue lezioni, Aristotele rende noti i risultati dei propri studi riguardandi diverse discipline quali la fisica, la geometria, l’astronomia, la zoologia, e la politica. Successivamente fu costituita una ricca biblioteca per favorire un’intensa attività di ricerca.Nel 323, l’anno in cui morì Alessandro, si afferma ad Atene il partito antimacedone. Aristotele è costretto a lasciare nuovamente la città e si ritira a Calcide, nell’isola Eubea, dove, nel 322, all’età di 62 anni, muore dopo alcuni mesi di malattia.LE OPERE. Le opere di Aristotele vanno suddivise in due categorie: - scritti acromatici o esoterici (riservato agli allievi) - scritti essoterici (quelli destinati al pubblico)Gli scritti appartenenti alla seconda categoria, ovvero quelli essoterici, sono andati perduti, e ci sono state tramandate solo attraverso testimonianze e citazioni di altri autori.La raccolta delle opere è ripartita in quattro gruppi di argomenti.Opere di carattere logica-linguistico, che sono: l’Interpretazione (breve studio sulle funzioni sistematiche del linguaggio), Categorie, Analitici primi (sul sillogismo), Analitici secondi (sulla dimostrazione), i Topici (sulla dialettica) e Confutazioni sofistiche (lo studio dei metodi contraffatti del confutare).Opere di fisica:Fisica (teoria generale della natura), Il cielo (astronomia e cosmologia), Nascita e morte, Meteorologia, Storia degli animali, Generazione degli animali (genetica ed embrionologia), Parti degli animali (anatomia e fisiologia), Locomozione degli animali, L’anima (brevi trattati di psicofisiologia), Il senso, La memoria. Metafisica (sui problemi filosofici della fisica).Opere morali, politiche, di poetica e di retorica:Etica eudemea, Etica nicomachea, Grande etica, Politica (distinzione delle forme di governo), Poetica (teoria della composizione drammatica), Retorica (studio dell’argomentazione persuasiva), Costituzione degli ateniesi.Vanno aggiunte inoltre delle opera apocrife come la Retorica ad Alessandro.Aristotele concepisce la filosofia non tanto come un esercizio di sapienza, bensì un’attività scientifica articolata in un sistema di discipline distinte, e mirante ad abbracciare tutti gli aspetti della realtà. Essa non serve a trasformare il mondo, ma soltanto a comprenderne l’ordine e a giustificarlo così com’è. Il sapere è inteso come la conoscenza delle cause e i principi.Al di sopra di ogni disciplina, allo stagirita va il merito di aver insegnato la logica, l’arte del ragionare in modo corretto per scoprire la verità delle cose. Prima di lui, quando non si riusciva ad interpretare un fenomeno naturale, si credeva che intervenisse una forza soprannaturale. Egli dimostrò che con il ragionamento si potevano spiegare i fenomeni dell’Universo. Molte sue geniali osservazioni non sono ora più accettabili, in virtù del fatto che egli vi giunse solo con l’aiuto della logica, senza mai sperimentare. Le teorie di Aristotele furono considerate le più autorevoli fino a quando gli strumenti della fisica moderna, come il telescopio, non rilevarono i complessi aspetti dell’Universo.La concezione aristotelica dell’Universo è la seguente: una serie di sfere concentriche, al cui centro si trova la Terra. Al limite esterno si trova una sfera di dimensioni finite contenente le cosiddette stelle fisse. L’universo risulta quindi finito e circoscritto da una specie d’involucro materiale. Il Sole è considerato l’elemento che assicura il rapporto fra i moti astrali e la vita terrestre.Gran parte della riflessione logica consiste nella descrizione delle forme proprie della lingua greca. Dietro di ciò agisce nel filosofo stagirita la consapevolezza dell’esistenza di uno stretto rapporto fra linguaggio e ordine della realtà.L’intero campo del sapere è diviso in tre partizioni: le discipline poietiche, quelle pratiche e quelle teoriche. Le prime sono quelle il cui scopo sta nella produzione di oggetti materiali. Le seconde producono non oggetti, bensì comportamenti umani. Le terze infine, sono caratterizzate da finalità esclusivamente conoscitive.Lo scopo della scienza aristotelica consiste nel penetrare più a fondo possibile nella struttura delle singole cose che popolano l’universo, che variano dagli astri, le specie biologiche, la psiche umana e i diversi regimi sociali.Il filosofo stagirita è considerato il principale teorico della tragedia. Nell’antichità greca questo genere drammatico era definito come mimesi, in altre parole imitazione della natura e della vita. Aristotele attribuisce alla mimesi ulteriore e inconfondibili caratteri. Essa non è tanto imitazione della storia, ma del verisimile. Non si tratta di scrivere cose realmente accadute, bensì quelle che potrebbero accadere. Un altro elemento introdotto è la catarsi: la purificazione che la rappresentazione teatrale esercita nell’animo degli spettatori.La natura invece è intesa come un insieme di realtà dotate di autonomia e di una capacità di generare processi finalizzati alla realizzazione di un’ordine.Il Dio di Aristotele è il frutto di un’esigenza cosmologica, e non di un bisogno di salvezza. E’ la condizione assoluta della vita e del pensiero. Dio inoltre garantisce la stabilità e l’ordine del mondo.Il filosofo stagirita attribuisce una sostanziale importanza anche alla psiche, alla quale dedica un’intera opera: l’Anima. Essa non è altro che una forma di un corpo vivente, la struttura funzionante di un organismo biologico. Corpo e anima stanno nello stesso rapporto di materia e forma, potenza e atto, organo e funzione.La retorica è considerata, per ciò che concerne il linguaggio, la più antica delle discipline.Ancor oggi essa rappresenta la base essenziale per inoltrarsi nel complesso studio delle tecniche di persuasione. Nel trattato della Retorica, l’autore cerca di determinare e spiegare logicamente le leggi che stanno dietro i fenomeni, fornendo all’oratore svariati consigli pratici, come il deteminare negli ascoltatori, gli atteggiamenti e gli stati d’animo più favorevoli.Anche se i primi retori furono Empedocle, Corace, e Tisia dalla Sicilia, Aristotele rappresenta sicuramente il più accreditato approfonditore e insegnate di retorica di tutti i tempi.A tale proposito il filosofo stagirita nella Retorica, afferma che il discorso si compone di tre elementi: colui che parla, ciò di cui si parla e colui al quale si parla, in altre parole l’ascoltatore.I discorsi inoltre vanno distinti in tre generi: deliberativo, giudiziario ed epidittico. Nel primo genere l’oratore consiglia ciò che è utile e sconsiglia ciò che è dannoso. Quello giudiziario consiste nel condurre i giudici nel decidere di difendere il giusto e accusare l’ingiusto. Il discorso epidittico o dimostrativo, infine, ha la funzione di lodare ciò che è bello e biasimare ciò che è brutto.Sia nell’oratoria deliberativa che in quella giudiziaria, la confutazione dell’avversario, può essere attuata per mezzo dei sillogismi, lo studio dei quali è stato introdotto da Aristotele negli Analitici primi. Il sillogismo tipico è quello categorico, costituito da tre proposizioni di cui una (detta conclusione) segue logicamente dalle altre due (premesse). Il nesso sta nel fatto che le tre proposizioni hanno, a due a due, un termine in comune. Il sillogismo, che può essere interpretato come un vero e proprio calcolo logico, in cui la verità delle conclusioni dipende interamente dalla verità delle premesse, costituisce la principale innovazione di Aristotele nel campo della logica.Anche la dialettica aristotelica è impostata da sillogismi. Essa però non è una scienza della dimostrazione, ma della discussione e della confutazione.L’aristotelismo fu ripreso e sviluppato, nelle diverse epoche, da diversi movimenti dottrinali.I successori svilupparono l’opera dello stagirita soprattutto nel campo delle ricerche scinentifiche e storiche. Tra questi ricordiamo Teofrasto di Eresso che coltivò la botanica, Eudemio di Rodi la storia delle scienze, Aristossene di Taranto la tecnica della musica, Stratone di Lamprasco la fisica.Anche gli arabi apprezzarono e diffusero il pensiero aristotelico.Intorno al III secolo d. C., l’aristotelismo incomincia a perdere la sua autonomia speculativa, trovando i continuatori nelle scuole del neoplatonismo, rifondendo in lui il suo messaggio.Nel Medio Evo latino la corrente aristotelica riprende vigore; gli Scolastici vi riscoprono una metafisica dell’essere, intesa come pura espressione del pensiero razionale.Nel 1700 Kant cerca di demolire la metafisica aristotelica, attuandone una fondamentale correzione.Altri illustri esponenti nel campo filosofico, quali Galilei e Copernico, rivisitarono il cosmo aristotelico, negando all’uomo la sua posizione centrale, inducendolo a cercare in se stesso il proprio centro, e nella storia umana il suo effettivo mondo.Il grande merito di Aristotele è comunque quello di aver divulgato una concezione che crede nei limiti dell’umano riponendo la saggezza nella fedeltà all’Essere.Le radici profonde non gelano mai.Forse è per questo che ancora oggi parliamo di paganesimo, di divinità e di pantheon come se nulla fosse cambiato da millenni.Il Paganesimo è stata la forma più autentica di venerazione delle forze della Natura, quella Natura che folgorava, inondava, sbocciava e fruttificava davanti agli occhi ingenui di una umanità ancora pura e aperta all’ignoto. Le donne e gli uomini che per primi lodarono le forze del mondo si avvicinarono ad esse con estremo rispetto, senza vanto e senza superbia.Oggi il paganesimo non è poi tanto diverso da allora, anche se qualcuno preferisce chiamarlo “neopaganesimo”, e gli Dèi sono sempre gli stessi. L’unica cosa che forse è cambiata è la scelta: in una società in cui si da per scontato il monoteismo, è cosa preziosa poter scegliere il da farsi sul proprio percorso spirituale.Chi sono i “neopagani” quindi? Sono persone normalissime che studiano, lavorano, hanno famiglia e bollette da pagare; nulla a che vedere con sette di dubbia fama: solo persone che venerano Artemide, Odino o Giove, a seconda della corrente a cui appartengono (la via Gentile, il Druidismo, la Wicca, il culto Greco, ecc…)In questa rubrica cercheremo di esporre i vari aspetti spirituali e antropologici del Paganesimo antico e moderno.I biologi Maturana e Varela, nel loro libro più noto, L’albero della conoscenza sostengono la tesi dell’autopoiesi, (ovvero dell’autocostruzione) per gradi diversi degli esseri viventi. La loro ipotesi, condivisa da altri eminenti scienziati, è che il primo essere autopoietico (dunque, di primo grado) sarebbe stata la cellula eucariote costituitasi come una società di organuli, ovvero batteri o pezzi di questi. L’unione poi in società della suddetta cellula, fino a formare un nuovo aggregato unitario, avrebbe portato alla formazione degli attuali esseri pluricellulari, che possiamo quindi per questo definire di secondo ordine. Come ulteriore sviluppo degli esseri pluricellulari, quale anche noi uomini siamo, sarebbero in costruzioni degli ulteriori esseri auto- poietici che possiamo identificare con delle intere società.La differenza, secondo i nostri autori, che esisterebbe tra noi, una società di insetti e un qualsiasi organismo pluricellulare consisterebbe sostanzialmente nella diversa autonomia posseduta dai singoli componenti della società di appartenenza.Quindi, noi uomini, come tutti gli altri animali pluricellulari staremmo lentamente, ma inesorabilmente, costruendo questo nuovo essere autopoietico di terzo ordine, che a processo ultimato dovrebbe costituire un’unità superiore. Noi ci staremmo collettivamente trascendendo in una nuova, superiore forma vivente. Non saremmo dunque condannati per l’eternità a rimanere ciò che oggi siamo: a svolgere un insopportabile ruolo di pura e semplice sopravvivenza.Ovviamente, una tale teoria si può condividere o meno. Quello che, invece, a mio parere, è davvero difficile condividere, è la tesi che noi uomini, così evoluti razionalmente, staremmo davvero marciando collettivamente verso un tale obiettivo. Ad un’analisi attenta sembrerebbe piuttosto che gli uomini, dopo aver raggiunto un certo grado di sviluppo di questa nuova unità in fieri, abbiano iniziato a regredire verso un suo sfaldamento, coincidente con una individualizzazione eccessiva, dettata da un ulteriore sviluppo della razionalità.La razionalità, o se preferiamo, la consapevolezza, ha preso ad un certo punto le redini della conoscenza e, quindi, degli obiettivi strategici da raggiungere, togliendole dalle mani dell’emotività che, fino a quel punto, aveva orchestrato la formazione di un nuovo aggregato superiore.Questo sarebbe accaduto perché la primitiva razionalità ha “interpretato” il mondo e noi in esso come un insieme frazionato di enti, limitati nello spazio e nel tempo, e dunque inesorabilmente isolati. Di conseguenza ha continuato ad operare su quelli, non tenendo conto dei legami sentimentali precedentemente costruiti dall’emotività, ritenendoli fino a qualche anno fa delle anomalie perché contrari al miglioramento delle probabilità di sopravvivenza del singolo.La tesi, che vogliamo invece avanzare in questa rubrica “Riflessioni da un paradigma sperimentale” è che la razionalità dovrebbe finalmente prendere coscienza degli obiettivi che la conoscenza emotiva si era in qualche modo prefissata e arrivare a condividerli in perfetta sintonia con quella che dovremmo considerare la nostra intima natura: le nostre legittime aspettative, che non sono, beninteso, le aspettative di un “disegno intelligente” messoci dentro da una divinità, ma lo sviluppo necessario per stabilizzarci e affrontare così al meglio delle possibilità l’avanzata nel futuro.A questo scopo, tutte le riflessioni che verranno fatte, di volta in volta, in questa rubrica, saranno svolte, assumendo come punti fermi del discorso due distinte proposizioni che non appaiono, di primo acchito, di per sé evidenti, ma che ci permetteranno di costruire un nuovo paradigma, in cui costruire teoremi in grado di abbattere molti degli odierni paradossi, in cui la logica ci spinge.Le suddette proposizioni sono:L’individualità è data dalla somma complementare di una soggettività e una socialità, o anche, Individualità = soggettività + socialità;La conoscenza umana è data da un’interazione di emotività e razionalità, considerate come tipologie conoscitive differenti.La prima, specifica, secondo quanto già accennato, che l’individualità è data dalla somma complementare di una soggettività, (ovvero, dall’attuale unità esistenziale che noi tutti siamo, in quanto sviluppo compiuto di una precedente società di cellule) e una socialità (ovvero di una nuova e più ampia unità in fase di formazione, costituita dalle odierne soggettività pluricellulari, che, oltre, dunque a trovare una configurazione idonea alla sopravvivenza, devono anche riuscire a sviluppare legami idonei alla costituzione di una nuova unità più ampia che possiamo chiamare società).Questa proposizione, sostituirebbe l’idea, utilizzata finora dalla razionalità, che l’individualità sia sostanzialmente identica alla soggettività: un nuovo concetto di individualità bivalente, dunque, da mettere al posto di un’individualità monovalente o tout court.Questa nuova base di partenza specifica esplicitamente che la socialità non può essere una caratteristica dovuta alla conoscenza razionale che ci fa uomini, ma che è una prerogativa antecedente della conoscenza emotiva posseduta da tutti gli animali superiori, che purtroppo la razionalità non ha saputo interpretare in maniera corretta, dedicandosi perciò ad una stabilizzazione della soggettività come singolarità e non come società.La seconda proposizione è tesa anch’essa a sostituire una Conoscenza tout court (considerata per lo più solo più complessa di quella degli altri animali) con una Conoscenza ambivalente, costituita dalla somma di due tipologie conoscitive differenti, quella emotiva che nei milioni di anni passati ha aggregato e modellato internamente delle perturbazioni esterne facendole diventare un territorio esterno e quella razionale che utilizza oggi quel territorio per costruirsi mappe comparate di situazioni differenti, al fine di far emergere preventivamente quelle possibili azioni che le trasformerebbero in vista di determinate finalità o, viceversa, simulare quali reali trasformazioni possano derivare da specifiche azioni.Una individualità e una conoscenza sdoppiate nei loro principali aspetti costitutivi ci permettono di capire perché noi uomini possiamo essere tanto diversi gli uni dagli altri, può essendo costituiti sostanzialmente in modo simile. Le ragioni ci vengono offerte dalla possibilità combinatoria di quattro conoscenze specifiche: due conoscenze riferite alla soggettività e due riferite alla socialità, che possono alla fine incidere sulla personalità finale dell’individuo. Che, beninteso, non dovrebbe più considerarsi un mondo a sé, scisso dagli altri, ma un mondo in continua trasformazione, teso a costituire una nuova unità superiore.Di conseguenza, l’unico modo serio di considerare la nostra vita dovrebbe essere quello di identificarla con la filogenesi e non più con l’ontogenesi, che è solo uno stadio di quella. Solo così ci sarebbe possibile guardare razionalmente nel lungo tempo, per “programmare” trasformazioni della personalità che implichino il coinvolgimento di più generazioni.Un’altra interessante e importantissima riflessione che possiamo ricavarne è il senso profondo e lo scopo che dovremmo accordare alla filosofia. Poiché la razionalità “interpreta”, con diversi gradi probabilistici(che spaziano dal fantastico al razionale per antonomasia)la realtà che di volta in volta ci si può mostrare, come pure quella che pensiamo di costruire con le nostre azioni, le probabilità di farci percorrere una strada sbagliata, stravolgendo la nostra intima natura, sono dietro ogni svolta. Se ne ricava, allora,che la razionalità ha bisogno di un meccanismo interno, che verifichi e regoli continuamente le sue stesse “interpretazioni”, in modo che si ritrovino in sintonia con la conoscenza espressa in maniera più deterministica dall’emotività.La Filosofia, quindi, obbedirebbe proprio a questa necessità e consisterebbe allora nello studio dell’accordo, della sintonia che deve necessariamente stabilirsi tra conoscenza emotiva e razionale, affinché la razionalità non ci spinga per lungo tempo, come purtroppo sta facendo oramai da secoli, su strade “chiuse”, che non potranno avere sbocchi nel futuro, sbarrate ad un certo punto da montagne inaccessibili o da abissi insormontabili.La Filosofia potrebbe dunque impedire un ulteriore snaturamento della nostra intima essenza, analizzando i modi di come sia possibile ritrovarsi sempre nei pressi della felicità, intesa come migliore condizione possibile, combinando sapientemente tra loro emozioni fondamentali come il piacere e la gioia.L'aspirazione all'indipendenza economica lo spinse a dedicarsi alla pratica clinica, lavorando per tre anni presso l'Ospedale Generale di Vienna con pazienti affetti da turbe neurologiche. Questa disciplina, essendo molto più remunerativa, gli avrebbe permesso di sposare la sua futura moglie, Martha Bernays. Fu proprio mentre lavorava in questo ospedale, nel 1884, che Freud cominciò gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta.Scoperto che la cocaina era utilizzata dai nativi americani come analgesico la sperimentò anche su se stesso osservandone gli effetti stimolanti e privi, a suo dire, di effetti collaterali rilevanti. La utilizzò in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico, Ernst Fleischl, che era divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore. Ma, la conseguente instaurazione della dipendenza da essa (più pericolosa rispetto a quella da morfina),fece scoppiare un caso che costituì una macchia nella sua carriera, anche in considerazione del fatto che un altro ricercatore, utilizzando i suoi studi, sperimentò la cocaina quale analgesico oftalmico, ricavandone rilevanti riconoscimenti nell'ambito medico internazionale. Rinunciò pertanto alle forti aspettative di ricavare successo da queste ricerche.Ulteriore risultato fu che ne divenne, notoriamente, assiduo consumatore. Il caso di Fleisch, tuttavia, che ebbe numerosi episodi paranoidei, allucinazioni e deliri, spinsero il medico a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina”. Dopo la pubblicazione smise di far uso della sostanza e di prescriverla.Nel 1885 ottenne la libera docenza e ciò gli assicurò facilitazioni nell'esercizio della professione medica. La notorietà e la stima dei colleghi gli permise una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario. È sempre di quest'anno la notizia della distruzione delle sue carte personali, avvenimento che si ripeté nel 1907. Successivamente, le sue carte furono attentamente custodite negli "Archivi Sigmund Freud" e gestite da Ernest Jones, suo biografo ufficiale e da alcuni membri del circolo psicoanalitico. Il lavoro di Jeffrey Moussaieff Masson portò alcuni chiarimenti (nonché una feroce critica) sulla natura del materiale soppresso.Nel biennio 1885-1886 iniziò anche gli studi sull'isteria e con una borsa di studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot. Questi suscitò notevole impressione sull'ancora giovane Freud, sia per i suoi metodi sia per la sua forte personalità.Le modalità di cura dell'isteria attraverso l'ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il suo rientro a Vienna, ma i risultati furono deludenti, tanto da attirarsi addosso le critiche di numerosi colleghi. Il matrimonio con Martha Bernays era stato più volte rimandato a causa di difficoltà che apparivano a Freud insuperabili e quando, il 13 maggio 1886, riuscì finalmente a sposarsi, visse l'avvenimento come una grossa conquista. Appena un anno dopo (1887) nacque la prima figlia, Mathilde seguita da altri cinque figli di cui l'ultima, Anna, diventò un'importante psicoanalista.Nel 1886 iniziò l'attività privata aprendo uno studio a Vienna; utilizzò le tecniche allora in uso, quali le cure termali, l'elettroterapia e l'idroterapia, ricorrendo anche all'applicazione dei magneti, una tecnica in uso fin dal 1700 che si credeva fosse in grado di agire sul sistema nervoso dei pazienti, ma non rilevò risultati apprezzabili. Utilizzò allora la tecnica dell'ipnosi e, per migliorare la stessa, compì un altro viaggio in Francia, a Nancy, ma non ottenne i risultati che si aspettava. Il 23 settembre 1897 venne iniziato "nella comunità fraterna" della Loggia del B'nai B'rith di Vienna, un anno dopo la sua fondazione. Freud era professore di neuropatologia e le teorie sulla psicoanalisi avevano ancora poca eco e considerazione nella scuola di medicina dell'epoca.Una chiave di volta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu l'incontro con Josef Breuer - importante fisiologo che poi, in diverse circostanze, sostenne Freud anche finanziariamente - intorno al caso di Anna O.. Breuer curava l'isteria della paziente attraverso l'ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi invalidanti tra i quali un'idrofobia psicogena. Sono di questo periodo le prime intuizioni sui ricordi traumatici. Il metodo, definito catartico - che fu pubblicato nel 1895 in Studi sull'isteria di Breuer e altri - venne successivamente utilizzato in modo sistematico da Freud.Il disagio della civiltà, edita nel 1929, è invece nobile interprete delle oscure riflessioni sulla natura umana che, in seguito alla Grande Guerra e alla Depressione, tormentarono i circoli culturali. L'uomo decade da valoroso patriota e lavoratore a lupo parricida. I valori sono così ridotti a convenzioni, peraltro disagevoli.Freud fa del "Disagio della civiltà" il manifesto delle più tetre e disilluse analisi. Ecco una citazione sui sentimenti religiosi:«Non ci si può sottrarre all'impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita. Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio generale di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche. Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l'ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranee agli scopi e agli ideali della massa.Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto. Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono. Uno di questi uomini eccezionali, per lettera, si definisce mio amico. Gli avevo mandato il mio piccolo scritto che tratta della religione alla stregua di un'illusione, ed egli mi rispose di concordare in pieno con il mio giudizio sulla religione, ma di dolersi che non avessi giustamente apprezzato la fonte autentica della religiosità.Essa consisterebbe in un particolare sentimento che, quanto a lui, non lo abbandonerebbe mai, che troverebbe attestato da molti altri e che supporrebbe presente in milioni di uomini, ossia in un sentimento che vorrebbe chiamare senso della "eternità", un senso come di qualcosa di illimitato, di sconfinato, per così dire di "oceanico". Tale sentimento sarebbe un fatto puramente soggettivo, non un articolo di fede; non comporterebbe alcuna garanzia d'immortalità personale, ma sarebbe la fonte di quell'energia religiosa che viene captata, immessa in particolari canali, e indubbiamente anche esaurita, dalle varie chiese e sistemi religiosi. Soltanto sulla base di questo sentimento oceanico potremmo chiamarci religiosi, anche rifiutando ogni fede e ogni illusione. Le opinioni espresse dal mio stimato amico, che personalmente ha esaltato una volta in una poesia la magia delle illusioni, mi hanno causato non lievi difficoltà. Per quel che mi riguarda, non riesco a scoprire in me questo sentimento "oceanico". Non è facile trattare scientificamente i sentimenti.Si può tentare di descriverne gli indizi fisiologici. Dove ciò non è possibile - e temo che anche il sentimento oceanico eluda una caratterizzazione siffatta - non resta da far altro che attenersi al contenuto rappresentativo che più immediatamente risulta associato al sentimento. Se ho ben compreso il mio amico, egli allude a ciò che un drammaturgo originale e piuttosto bizzarro offre al suo eroe come consolazione nella prospettiva della morte volontaria: "Fuori di questo mondo non possiamo cadere." Si tratta dunque di un sentimento di indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno. Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere di un'intuizione intellettuale, non certo priva di una sua risonanza emotiva, ma tale comunque da non dover risultare assente neanche da altri atti di pensiero di analoga portata. Per quanto riguarda la mia persona non potrei convincermi della natura primaria di un tale sentimento. Non per questo mi è però lecito negarne la presenza effettiva in altre persone. Occorre soltanto chiedersi se venga correttamente interpretato e se debba essere riconosciuto come fons et origo di tutti i bisogni religiosi.Non ho nulla da proporre che possa contribuire in modo decisivo alla soluzione di questo problema. L'idea che l'uomo debba avere conoscenza della propria connessione con il mondo circostante attraverso un sentimento immediato e fin dall'inizio orientato in tale direzione, appare così strana e si accorda così male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di tale sentimento. Possiamo quindi disporre della seguente linea di pensiero:Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto a ogni altra cosa. Che tale apparenza sia fallace, che invece l'Io abbia verso l'interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in una entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e per la quale esso funge per così dire da facciata, lo abbiamo per la prima volta appreso dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra Io ed Es. Ma verso l'esterno almeno l'Io sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette.»Freud orientò anche i suoi studi sull'antropologia e sul totemismo, sostenendo che il totem riflette la codificazione di un complesso di Edipo relativo alla tribù. Il disagio della civiltà, uno degli ultimi libri di Freud, dedicato all'applicazione delle teorie psicoanalitiche alla società, riprende concetti espressi anche in Totem e tabù, Psicologia delle masse e analisi dell'Io e L'avvenire di un'illusione. Il concetto di nevrosi collettiva, riprende ma in senso molto diverso alcune idee già presentate da Jung (inconscio collettivo).Vengono presentate alcune idee sociologiche oggi abbastanza accettate ed altre più discutibili. Un esempio del primo tipo è il fatto che la repressione della libido da parte della società sia fonte del disagio che ci colpisce e che ci fa sentire limitati, in quanto privati delle soddisfazioni di cui necessitiamo. Freud fa risalire tutto questo alla sua storica contrapposizione tra Io e Super-Io, identificando nel Super-Io la morale sociale che avvilisce l'Io. Il problema della conflittualità interiore alla psiche umana, certo non nuovo nella filosofia occidentale, era stato già posto in termini molto simili - e con la stessa denominazione di "cattiva coscienza" - da Nietzsche nella Genealogia della morale: per entrambi la "civiltà" è riuscita a rendere mansueto un uomo altrimenti aggressivo, limitando le sue pulsioni distruttive ed antisociali, che non possono però essere completamente eliminate. Queste vengono altresì rese pericolosamente capaci di sfogarsi solamente contro il soggetto stesso; Freud adatta questa riflessione nietzscheana alla Seconda topica, ed arriverà perciò a fare del Super-Io l'istanza repressiva, di controllo, che la società ha "inserito" nella stessa psiche dell'uomo. Il Super-Io ha dunque la funzione di limitare, in senso moralista, sia alcune pulsioni sessuali - portando l'individuo alla nevrosi nel caso in cui lo faccia con eccessiva rigidezza - sia l'aggressività umana, in quanto Freud condivide quel filone pessimista dell'antropologia che può essere condensato nella formula "homo homini lupus".Presupposto della metafisica è la ricerca sui limiti e sulle possibilità di un sapere che non può derivare in modo diretto dall'esperienza sensibile. I cinque sensi, infatti, si limitano a recepire passivamente le impressioni derivanti dai fenomeni naturali entro una gamma ristretta di percezioni, e quindi non sono in grado di fornire una legge capace di descriverli, non sono in grado cioè di coglierne l'essenza.Scopo della metafisica, in questo senso, è il tentativo di trovare e spiegare la struttura universale e oggettiva che si ipotizza nascosta dietro l'apparenza dei fenomeni. Sorge pertanto l'interrogativo se una tale struttura, oltre a determinare la realtà, sia in grado di determinare il nostro stesso modo di conoscere, attraverso idee e concetti che trovano corrispondenza nella realtà.Secondo questa linea interpretativa, solo nel nostro intelletto è possibile formulare quei criteri di razionalità e universalità che ci permettono di conoscere il mondo: la semplice «sensazione in atto», infatti, «ha per oggetto cose particolari, la scienza invece ha per oggetto gli universali e questi sono, in un certo senso, nell'anima stessa»Ecco dunque la radicale contrapposizione, propria dei grandi filosofi metafisici, da Parmenide, Socrate,Platone, Aristotele, fino ad Agostino, Tommaso, Cusano, Campanella, ecc., tra il sapere acquisito dei sensi, e il sapere proprio dell'intelletto.Secondo questa scuola di pensiero, quindi, non ci può essere vera conoscenza se questa non scatuirisce dall'intelligenza, la quale però, per attivarsi, deve anzitutto prendere coscienza di sé:se l'intelletto fosse incapace di pensare se stesso, non potrebbe neppure prendere coscienza della verità, né coscienza di poterla mai raggiungere.Il pensiero di sé, pertanto, è stato assunto spesso come base di partenza, a cominciare dalla sua capacità di rendere possibile un sapere immediato, universale e assoluto, perché in esso il soggetto è immediatamente identico all'oggetto, essendo l'io che intuisce se stesso.Almeno fino a Cartesio, a partire dal quale il tema dell'autocoscienza sarà ricondotto entro una dimensione più prettamente soggettiva e psicologica, l'intuizione conoscitiva di sé resterà connessa alla questione ontologica preponderante di un Essere da porre a fondamento della propria intima essenza.Anche nella filosofia moderna tuttavia non mancano casi, ad esempio in Spinoza, Leibniz, Fichte, in cui di volta in volta la soggettività risulta legata a tematiche ontologiche.In generale l'intuizione, o l'appercezione,è stata posta come origine e traguardo di ogni metafisica, e considerata superiore sia al pensiero razionale che alla conoscenza empirica: il pensiero razionale infatti si basa su una forma mediata di sapere, nella quale il soggetto giunge ad apprendere l'oggetto solo in seguito ad un calcolo o un'analisi razionale, e dove pertanto essi sono separati; analogamente, una conoscenza di tipo empirico risulta mediata dai sensi, e dunque in essa, ancora una volta, soggetto e oggetto risultano separati.In considerazione di ciò si comprende come la maggior parte dei filosofi metafisici postulasse una differenza non solo tra coscienza e percezione sensibile, ma anche tra intelletto e ragione.L'intelletto è il luogo in cui propriamente si produce l'intuizione, ed è pertanto superiore alla ragione perché è il principio primo senza il quale non si avrebbe conoscenza di nulla; mentre la ragione è solo uno strumento, un mezzo che permette di comunicare e di avvicinarsi discorsivamente alla visione intuitiva dell'universale. Il Novecento filosofico porterà, seppur per vie diverse e sulla base di teorizzazioni eterogenee o fra loro incompatibili, altri pesanti attacchi alla metafisica. Tra i più illustri antimetafisici va indubbiamente ricordato Ludwig Wittgenstein, che muovendo dall'elaborazione della logica di Frege e Bertrand Russell, e cercando di sancire definitivamente i limiti del linguaggio, individuò nella prassi metafisica la trascendenza dei limiti di significanza del linguaggio umano; celebre è la sua definizione di metafisica, indicata come qualcosa che sorge "quando il linguaggio fa vacanza". Tradotto in termini immediati, Wittgenstein riteneva che le questioni trattate dalla metafisica non potessero avere in nessun modo una soluzione definitiva, in quanto più che problemi filosofici esse concernevano problemi linguistici, sorti sulla base di un fraintendimento logico delle pertinenze del linguaggio stesso. Da cui la convinzione wittgensteiniana che i problemi metafisici non fossero nemmeno problemi, poiché un problema per essere posto, deve essere chiaramente e inequivocabilmente formulato.L'antimetafisica di Wittgenstein verrà raccolta poi dal Circolo di Vienna e dal Positivismo logico, che ne approfondirà ed integrerà alcuni aspetti impliciti, nel tentativo di edificare una filosofia il più possibile fondata su teorie e pratiche della scienza formale; formulazione che si sostanzia nella teoria del verificazionismo.In seguito alcuni filosofi tra cui principalmente Karl Popper, sconfesseranno la stessa teoria verificazionista (fondata sull'assunto che ogni enunciato filosofico dovrebbe essere passibile di verifica empirica), come pura metafisica. La verifica di tutti i casi positivi non può in nessun caso provare alcunché, né può essere praticamente applicata; molto più utile alla metodologia scientifica è la ricerca di casi falsificanti, ovvero sconfessanti la teoria originaria. Popper assumerà nei riguardi della metafisica un atteggiamento più moderato rispetto ai neopositivisti logici, sostenendo che essa può trovare cittadinanza presso la pratica filosofica, a patto che dalla speculazione filosofica sia poi possibile desumere teorie scientifiche falsificabili. Le proposizioni metafisiche per Popper hanno tra l'altro perfettamente un senso, nella misura in cui seguono il metodo rigoroso della logica formale, cioè mostrano di essere interiormente coerenti. Non hanno dunque soltanto un mero valore suggestivo o soggettivo.Da un altro punto di vista muove la critica di Heidegger alla metafisica, che tuttavia va piuttosto considerata come una prospettiva di interpretazione storico-filosofica, piuttosto che una critica volta a negarne le ragioni e la necessità. In particolare, Heidegger concepisce la storia della metafisica come una manifestazione nel pensiero della storia dell'essere stesso: l'essere si dà, si rivela nel pensiero attraverso le definizioni che di esso hanno via via dato i vari pensatori, le varie forme culturali, concependolo ad es. come Idea, come Valore, come Ente supremo, come Monade, come Volontà di potenza, fino a ridurlo a Niente, cioè letteralmente al non-ente, a un che di ignoto e inconoscibile (nichilismo). La critica di Heidegger alla metafisica è quindi in realtà un tentativo di ripensare l'Essere nella sua originarietà, riportandosi al di qua di tutta la tradizione filosofica che, da Platone in poi, elaborando la metafisica ha condotto l'Essere al suo oblio: la metafisica diviene così uno dei modi entro cui si è manifestato, storicamente, l'Essere stesso, paradossalmente mediante il suo proprio nascondimento concettuale.Una certa pertinenza con il tema delle critiche alla metafisica (e più in generale alla filosofia tradizionale) nate in ambito neopositivista, ha l'articolo di Rudolf Carnap, "Il superamento della metafisica tramite l'analisi logica del linguaggio (1931)". Carnap sostiene che in un linguaggio deve essere presente un vocabolario ed una sintassi, ovvero un gruppo di parole e delle regole che permettano la costruzione di enunciati e ne legiferino la costruzione stessa; concordemente a ciò egli sostiene che dal linguaggio è anche possibile trarre "pseudo-proposizioni" ovvero enunciati correttamente formati, ma contenenti parole prive di significato, oppure enunciati composti di parole in sé significanti, ma costruiti nella violazione delle regole sintattiche. Carnap analizza nel suo articolo un paragrafo del libro "Cos'è la metafisica?" del filosofo tedesco Martin Heidegger:Ma allora perché ci preoccupiamo di questo niente? La scienza appunto rifiuta il niente e lo abbandona come nullità.La scienza non vuol saperne del niente.Che ne è del niente? C'è il niente solo perché c'è la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c'è la negazione e il non solo perché c'è il niente? Il niente è la negazione completa della totalità dell'ente.L'angoscia rivela il niente.L'analisi di Carnap sostiene che non è possibile trarre un enunciato osservativo che possa verificare le proposizioni contenute in questo paragrafo. Inoltre Carnap accusa Heidegger di utilizzare la parola "nulla" come se corrispondesse ad un oggetto, essendo invece essa la negazione di una proposizione possibile.In linea generale la critica rivolta da Carnap alla metafisica è dunque quella di esprimersi per "pseudo-proposizioni", ovvero proposizioni solo apparentemente dotate di significato. La svalutazione della metafisica non viene tuttavia generalizzata da Carnap, il quale le riconosce un grande ruolo ad esempio nelle varie arti, ciò che le nega è la possibilità di avere una funzione conoscitiva.Ancora, nel Novecento russo, la metafisica venne interpretata secondo i termini di una originale metafisica concreta dal pensatore e mistico Pavel Aleksandrovič Florenskij.Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicchè, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressochè tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E' evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. (Aristotele, Metafisica I,2,982b)La giusta maniera di procedere da sè o di essere condotti da un altro nelle cose d'amore é questa: prendendo le mosse delle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza di null'altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che é il bello in sè.(Platone, "Simposio")Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l'origine della filosofia. (Aristotele, "Protrettico")Io vi insegno il superuomo. L' uomo é qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sè:e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l' uomo?Che cosa é per l'uomo la scimmia?Un ghigno o una vergogna dolorosa.E questo appunto ha da essere l' uomo per il superuomo:un ghigno o una dolorosa vergogna.Avete percorso il cammino dal verme all' uomo,e molto in voi ha ancora del verme.In passato foste scimmie,e ancor oggi l' uomo é più scimmia di qualsiasi scimmia.E il più saggio tra voi non é altro che un'ibrida disarmonia di pianta e spettro.Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta?Vedete, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà vi dica: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure! Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell'imperscrutabile maggior conto che del senso della terra! (Nietzsche, "Così parlò Zaratustra")Grande e bello spettacolo veder l'uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei suoi propri sforzi; disperdere, con i lumi della ragione, le tenebre in cui la natura l' aveva avviluppato; innalzarsi al di sopra di se stesso; lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti: percorrere a passi di gigante, al pari del sole, la vasta distesa dell'universo; e, ciò che é ancor più grande e difficile, rientrare in se stesso per studiarvi l'uomo e conoscerne la natura, i doveri e il fine.Sicuri dunque e a testa alta, in qualsiasi luogo ci toccherà di andare, avviamoci con passo intrepido, misuriamo ogni angolo di terra, quale esso sia: entro i confini del mondo non vi può essere esilio di sorta; nulla infatti che si trovi in questo mondo é estraneo all'uomo. Da ogni terra lo sguardo si solleva al cielo sempre ad ugual distanza, tutto ciò che é divino dista sempre del medesimo intervallo da tutto ciò che é umano. (Seneca, "De consolatione")Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perchè é scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figure matematiche, attissime per tal lettura.In luogo del gran numero di regole di cui si compone la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare neppure una volta di osservarle. La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne. La seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente. La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l'un l'altra. E l'ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla.Ho lottato, é molto: credetti poter vincere ( ma alle membra venne negata la forza dell'animo ), e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. E' già qualcosa l'essersi cimentati; giacchè vincere vedo che é nelle mani del fato. Per quel che mi riguarda ho fatto il possibile, che nessuna delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita.Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti. Per esempio, la morte non è nulla di terribile (perché altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate): ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l'ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l'ha completata non incolpa né gli altri né se stesso.Essere o non essere;questo é il problema:se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi,i sassi e i dardi dell' iniqua fortuna,o prender l' armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli.Morire:dormire;nulla di più;e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne,é soluzione da accogliere a mani giunte.Morire,dormire,sognare forse: ma qui é l' ostacolo, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale,ci trattiene:é la remora questa che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti.Chi vorrebbe,se no,sopportar le frustate e gli insulti del tempo,le angherie del tiranno,il disprezzo dell' uomo borioso,le angosce del respinto amore,gli indugi della legge,l' oltracotanza dei grandi,i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri,quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale?Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca,se non fosse il timore di qualche cosa,dopo la morte,la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore,a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d' altri che non conosciamo?Così ci fa vigliacchi la coscienza;così l' incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero.E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso:e dell' azione perdono anche il nome.La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe. Uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta, una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell'intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto. Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme strutturazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste classi, ulteriori specifiche classificazioni. La moderna società borghese, sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi.L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E' con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale.Due cose riempono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambe le cose non posso cercarle e semplicemente supporle come fossero nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale (ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il mio valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità, nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, perlomeno quanto può essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa vita, ma si estende all'infinito. Però, stupore e rispetto possono sì spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza.Tutta la bellezza e la magnificenza che abbiamo prestato alle cose reali e immaginate, io voglio rivendicarla come proprietà e opera dell'uomo: come la sua più bella apologia. L'uomo come poeta, pensatore, Dio, amore, forza; ammiriamo la sua regale generosità, con cui ha fatto doni alle cose per impoverire se stesso e sentirsi miserabile ! Finora il suo maggiore disinteresse fu questo, che egli ammirò e adorò e seppe nascondere a se stesso che egli stesso aveva creato ciò che ammirava.Voglio capire come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie ... l'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere.La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens. Ogni uomo infine, all'infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un "filosofo", un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un'indefettibile fiducia in esso.Perchè la morte ti strappa questi gemiti?Perchè se hai potuto godere a tuo piacimento della vita trascorsa,se tutti questi godimenti sono stati come radunati in un vaso forato,se non sono scorsi via e perduti senza profitto,perchè,come un convitato sazio,non ritirarti dalla vita?Perchè,povero sciocco,non prenderti di buona grazia un riposo che nulla turberà?Se,invece,tutto ciò di cui hai a lungo goduto é trascorso in pura perdita,se la vita ti é di peso,perchè volerla prolungare di un tempo che a sua volta deve terminare in una triste fine e dissiparsi tutto senza profitto?Non posso immaginare ormai altre nuove invenzioni per farti piacere:le cose vanno sempre allo stesso modo.Conoscere la ragione come la rosa nella croce del presente e in tal modo godere di questo, questa intellezione razionale è la conciliazione con la realtà, che la filosofia procura a coloro, nei quali una volta è affiorata l'intera esigenza di comprendere, e altrettanto di mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva, così come di stare con la libertà soggettiva non in un qualcosa di particolare e accidentale, bensì in ciò che è in sè e per sè.Il fondamento della critica alla religione é: è l’uomo che fa la religione, e non è la religione che fa l’uomo.Infatti, la religione è la coscienza di sè e il sentimento di sè dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un'entità astratta posta fuori del mondo. Concludo dicendo che: L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società.Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo punto d’onore spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione.Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, è l'anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione approda alla teoria che l'uomo è per l'uomo l'essere supremo.Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di chiunque altro esposto all'errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni.Infine, considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo. Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non esistesse.E mi svolse (fors'anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia. Di tratto in tratto, il brav'uomo s'interrompeva per domandarmi: - Dorme, signor Meis? E io ero tentato di rispondergli:Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.Ma poiché l'intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive.A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta:di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? - Dorme, signor Meis? - Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino.Ah, bene, Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe?Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose.Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda… Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda).Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo.Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità.Abbiamo escluso la Filosofia da una gran parte del dominio che si supponeva appartenerle. Il dominio che rimane è quello occupato dalla scienza. La scienza tratta delle coesistenze e sequenze tra i fenomeni: essa li raggruppa da prima per formare generalizzazioni di un ordine semplice o basso, e si eleva a grado a grado a più alte e più estese generalizzazioni. Ma se è così, dove rimane un campo per la Filosofia? La risposta è questa: Filosofia può essere ancora propriamente il titolo da applicarsi alla conoscenza della più alta generalità. […] Le verità della filosofia hanno dunque con le più alte verità scientifiche la stessa relazione che ciascuna di queste ha con le verità scientifiche inferiori.Come ogni più ampia generalizzazione della Scienza comprende e consolida le più ristrette generalizzazioni del suo dominio; così le generalizzazioni della Filosofia comprendono e consolidano le più ampie generalizzazioni della Scienza. Perciò la conoscenza che costituisce la Filosofia è nel genere l’estremo opposto di quella che l’esperienza da prima accumula.Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa; similmente, all'apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua anche sotto la spinta dell'altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell'unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l'una non meno dell'altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell'intero.Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può essere cioé orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità».Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuole certo dir questo.Ma v’è una differenza incolmabile, tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale – in termini religiosi – suona: ‘Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio’, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni.E' davvero incredibile come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umanità. E' un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gli uomini somigliano a orologi che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta che un uomo viene generato e partorito, è l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ripetere ancora una volta, fase per fase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un breve sogno dell'infinito spirituale naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre.Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere pagato dall'intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo temuta, finalmente venuta.Per questo ci fa così subitamente malinconici la vista di un cadavere. La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.Imperocchè l'agitazione e il tormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene da commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia.Se l’essere umano è per l’uomo l’essere sommo anche nella pratica la legge prima e suprema sarà l’amore dell’uomo per l’uomo. "Homo homini deus est": questo è il nuovo punto di vista il supremo principio pratico che segnerà una svolta decisiva nella storia del mondo.In questo sottile momento in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Cosi' persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che e' umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dei e solleva i macigni.Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile nè futile.Ogni granello di quella pietra ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.Indagare e dubitare sono, fino ad un certo punto, termini sinonimi. Noi indaghiamo quando dubitiamo; ed indaghiamo quando cerchiamo qualcosa che fornisca una risposta alla formulazione del nostro dubbio. Pertanto è peculiare della natura stessa della situazione determinata che suscita l'indagine, di essere fonte di dubbio; o, in termini attuali anzichè potenziali, di essere incerta, disordinata, disturbata. La qualità peculiare di ciò che investe i materiali dati, costituendoli in situazione, non è esattamente un'incertezza generica; è una dubbiosità unica nel suo genere che fa si che la situazione sia appunto e soltanto quella che è. E' quest'unica qualità che non soltanto suscita la particolare indagine intrapresa ma esercita anche il controllo sopra i suoi speciali procedimenti.Altrimenti nell'indagine un qualunque processo potrebbe aver luogo e riuscirvi fecondo con altrettanta probabiltà che qualunque altro.Ove una situazione non sia univocamente qualificata nella sua propria indeterminatezza, si da uno stato di completo panico: la risposta ad esso assume la forma di attività palesi cieche e selvagge. Enunciando la cosa da un punto di vista personale, noi abbiamo "perso la testa". Una grande varietà di parole serve a caratterizzare le situazioni indeterminate. Esse sono disturbate, penose, ambigue, confuse, piene di tendenze contrastanti, oscure, ecc E' la situazione che ha questi caratteri. Noi siamo dubbiosi perchè la situazione è nella sua essenza dubbiosa.Perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili al livello dell'osservazione scientifica la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo, dal momento che ci rallegriamo osservando le loro immagini poiché al tempo stesso vi riconosciamo l'arte che le ha foggiate, la pittura o la scultura, se non amassimo ancora di più l'osservazione degli esseri stessi così come sono costituiti per natura, almeno quando siamo in grado di coglierne le cause. Dunque, non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v'è qualcosa di meraviglioso. E come Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma che una volta arrivati, ristavano vedendo che si scaldava presso la stufa della cucina (li invitò ad entrare senza esitare: "anche qui - disse - vi sono dei"), così occorre affrontare senza disgusto l'indagine su ognuno degli animali, giacchè in tutti v'è qualcosa di naturale e di bello. Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello. Se poi qualcuno ritenesse indegna l'osservazione degli altri animali, nello stesso modo dovrebbe giudicare anche quella di se stesso; non è infatti senza grande disgusto che si vede di che cosa sia costituito il genere umano: sangue, carni, ossa, vene, e parti simili.Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare.Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell' Arpinate.Innanzitutto , va detto che gran parte dell' opera di Cicerone é pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione dei valori tradizionali.Dietro la vicenda intellettuale dell' Arpinate si profila una società attraversata da spinte contrastanti , spesso laceranti: l' afflusso di ricchezze dai paesi conquistati ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato repubblicano.D' altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche é dare una solida base ideale , etica , politica a una classe dominante ( gli optimates ) il cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure , cui il rispetto per la tradizione nazionale ( mos maiorum ) non impedisca l' assorbimento della cultura greca ; una classe che l' assolvimento dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura , nè , in generale , di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine di humanitas . Quella di Cicerone , chiaramente , rimane un' ottica di parte , legata al progetto di egemonia di un blocco sociale ( sostanzialmente i ceti possidenti ) : egli é fermamente contrario a qualsiasi progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti , Cicerone scorge la via d' uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti abbienti , senatori e cavalieri ( concordia ordinum ) . La sua , in fin dei conti , é e rimane una natura moderata in campo politico . In un secondo tempo , però , Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti . In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre , la concordia ordinum si era rivelata fallimentare : Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum , cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti , amanti dell' ordine sociale e politico , pronte all' adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia . Il dovere dei boni é quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici : essi devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa . Il progetto di concordia dei ceti abbienti , nelle due diverse formulazioni che Cicerone ne diede , significò in ogni caso un tentativo almeno embrionale ( é ovvio che i boni preferirono in ogni caso tutelare i propri interessi ) di superare in nome del superiore interesse della collettività , la lotta tra i gruppi e le fazioni all' epoca dominanti la scena politica romana . Tuttavia il pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni : da tempo si dibatteva in Grecia se l' oratore dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto , della filosofia e della storia . In gioventù Cicerone aveva iniziato , senza portarlo a termine , un trattatello di retorica , il De inventione ( inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell' oratore ) . Un interesse particolare riveste il proemio , dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia ( cioè cultura filosofica ) , quest' ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell' oratore : l' eloquenza priva di sapientia ha portato più volte gli stati in rovina . La soluzione ciceroniana é pensata esplicitamente per la società romana : molti anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore , una delle sue opere " più curate " . Composto nel 55 , durante un periodo di ritiro dalla vita politica , mentre Roma era travagliata dalle bande di Clodio e di Milone , é ambientato nel 91 , al tempo dell' adolescenza di Cicerone ; sotto forma di dialogo ( sulle orme di Platone ) vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell' epoca , fra i quali spiccano Marco Antonio ( 143 - 87 a.C. ) , nonno del triumviro che fece uccidere l' Arpinate , e Lucio Licinio Crasso , portavoce del pensiero di Cicerone stesso . Nel I libro Crasso sostiene , per l' oratore , di una vasta formazione culturale . Antonio gli contrappone l' ideale di un oratore più istintivo e autodidatta , la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali , sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l' esempio degli oratori precedenti . Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche , ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio ( la raccolta di materiale ) , la dispositio ( l' organizzazione del materiale ) e la memoria ( l' insieme delle tecniche per memorizzare i concetti ) . Compare anche un personaggio spiritoso e caustico , Cesare Strabone , al quale é assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito . Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio , cioè in genere all' actio ( recitazione ) dell' oratore , non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica . La scelta del 91 per l' ambientazione del dialogo ha un preciso significato : é l' anno stesso della morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario ( l' homo novus ) e Silla , nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni altri degli interlocutori principali , fra cui lo stesso Antonio . La crisi dello stato é un'ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l' ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni , la villa tuscolana di Crasso . La consapevolezza della terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri . Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi , Cicerone si é sforzato di ricreare l'atmosfera degli ultimi giorni di pace dell' antica repubblica . Il modello a cui si ispira é sostanzialmente quello del dialogo platonico : con gesto aristocratico , alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano . A sintetizzare la tesi principale di tutta l' opera potrebbe valere un' espressione di Sulpicio , uno dei partecipanti al dialogo : " non l' eloquenza é nata dalla teoria retorica , ma la teoria retorica dall' eloquenza " . Si richiede quindi una vasta preparazione culturale ( soprattutto filosofica - morale ) all' oratore : bisogna che egli sia versatile , abile a sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento , riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio ; ma questo di per sè non basta : il tutto deve essere accompagnato dalla virtus , la quale deve mantenere l' intero sistema oratorio ancorato all' apparato dei valori tradizionali , in cui la " gente perbene " si riconosce . Crasso insiste perchè probitas ( integrità )e prudentia ( saggezza ) siano saldamente radicate nell' animo di chi dovrà apprendere l' arte della parola : consegnarla a chi mancasse di queste virtù sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati . La formazione dell' oratore viene quindi a coincidere con quella dell' uomo politico della classe dirigente . Egli dovrà servirsi della sua abilità oratoria non per blandire il popolo copn proposte demagogiche , ma per piegarlo alla volontà dei boni . Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più esile , l' Orator , aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica . Disegnando il ritratto dell' oratore ideale ( come Platone aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico ) , l' Arpinate sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi : probare ( argomentare la propria tesi ) , delectare ( produrre un effetto piacevole sull' uditorio ) , flectere ( muovere le emozioni tramite il pathos ) . Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l' oratore dovrà sapere alternare : umile , medio , e elevato o " patetico " . Nel 44 , poi , Cicerone compone i Topica , ispirati all' opera omonima di Aristotele , i quali trattano dei topoi , i luoghi comuni ai quali può far ricorso l' oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso . Ma possono farvi ricorso anche i filosofi , gli storici e i giuristi . Il modello del dialogo platonico ritorna poi , con maggiore evidenza , nel De re publica , al quale Cicerone si dedicò assiduamente fra il 54 e il 51 . Non cercò , tuttavia , di costruire a tavolino uno stato ideale , come Platone aveva fatto nella sua " Repubblica " : con gesto che gli diventava sempre più consueto , l' Arpinate si proiettò nel passato , per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni . Il dialogo si svolge nel 129 , nella villa suburbana di Scipione Emiliano , che con l' amico e collaboratore Lelio é uno dei principali interlocutori . La ricostruzione della trama é purtroppo resa fortemente ipotetica , soprattutto per alcune sezioni , dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo ci é stato conservato . Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di governo ( monarchia , aristocrazia , democrazia ) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estreme , rispettivamente della tirannide , della oligarchia e della olocrazia ( governo della " feccia " del popolo ) . Scipione mostra come lo stato romano dei maiores ( gli antenati ) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali : l' elemento monarchico si rispecchia nell' istituzione del consolato , l' elemento aristocratico nell' istituzione del senato , l' elemento democratico nell' istituzione dei comizi . Il libro II si occupa della costituzione romana , mentre il III tratta della iustitia , ed é in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione dell' acutissima critica che l' accademico Carneade aveva svolto dell' imperialismo romano : la critica si incentrava soprattutto sul concetto di " guerra giusta " , ricorrendo al quale i Romani , col pretesto di soccorrere i loro alleati , ( cioè sudditi ) in difficoltà , avevano progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera d' influenza . Il IV libro si occupa dell' educazione dei cittadini e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti . Nei libri IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae ( rettore e governatore dello stato ) o princeps . Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione , da parte di Scipione l' Emiliano , del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l' avo , Scipione Africano , per mostrargli , dall' alto del cielo , la piccolezza e l' insignificanza di tutte le cose umane , anche della gloria terrena , e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell' aldilà le anime dei grandi uomini di stato : questa parte , che costituisce la sezione finale dell' opera , va generalmente sotto il nome di Somnium Scipionis . La teoria del regime misto cui si appella Scipione risaliva agli stessi Platone ( vedi le " Leggi " ) e Aristotele . Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre in inganno : il singolare si riferisce al " tipo " dell' uomo politico eminente , non alla sua unicità ( come invece sarà invece per Machiavelli ) ; in altre parole , l' Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano . Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche , principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza : é questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato . Cicerone disegna così l' immagine di un dominatore - asceta , rappresentante in terra della volontà divina , rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia verso le passioni umane . L' ideale ciceroniano era tuttavia difficilmente realizzabile : probabilmente proprio la convinzione della necessità di un governo di maggiore autorevolezza , e d' altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l' accentramento di enormi poteri nelle mani di pochi capi , spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri , nella speranza di mantenere l' operato sotto il controllo del senato . Ispirandosi ancora al modello di Platone , che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi , l' Arpinate completò il dialogo sullo stato col De legibus , iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita . L' azione stavolta non é posta in un' epoca passata , ma nel presente , e interlocutori sono lo stesso Cicerone , il fratello Quinto , e il grande amico Attico . L' ambientazione é nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti , raffigurati secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo modello soprattutto nel Fedro di Platone . Quinto é tratteggiato come un ottimate estremista , Cicerone come un conservatore moderato , Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche . Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non é sorta per convenzione , ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed é perciò data da Dio . Nel libro II l' esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione utopica ( alla Platone ) ma sulla tradizione legislativa romana , che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale . Nel libro III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze . In gioventù l' Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi più diversi , e ad interessarsi di filosofia continuò per tutta la vita : a scriverne , tuttavia , iniziò solo nel 46 , con l' operetta sui Paradossi degli Stoici , dedicata a Marco Bruto e incentrata soprattutto sull' esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l' opinione comune . Ma é nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone , quali la morte della figlia Tullia . L' Hortensius , perduto , era un' esortazione alla filosofia , sul modello del Protrettico di Aristotele . Gli Academica , che trattavano i problemi gnoseologici , ebbero una duplice redazione : la prima , i cosiddetti Academica priora , in due libri ; la seconda , gli Academica posteriora , in quattro libri . Il De finibus bonorum et malorum ( I limiti del bene e del male ) é da alcuni considerato il capolavoro filosofico di Cicerone : tratta questioni etiche , e cioè il problema del sommo bene e del sommo male , che é affrontato in 5 libri , comprendenti 3 dialoghi . Nel primo é esposta la teoria degli epicurei , cui segue la confutazione ciceroniana ; nel secondo si mette a confronto la teoria stoica con le teorie accademica e peripatetica ; nel terzo é esposta la teoria eclettica di A. Ascalona , maestro di Cicerone e di Varrone , la più vicina al pensiero dell' autore . Ancora di questioni etiche tratta un' altra fra le maggiori opere filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata , le Tusculanae disputationes , dedicate anch' esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo . L' opera , in 5 libri , che segna il massimo avvicinamento dell' Arpinate alle tesi propugnate dagli stoici , é condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore . Nei singoli libri sono trattati , rispettivamente i temi della morte , del dolore , della tristezza , dei turbamenti dell' animo e della virtù come garanzia della felicità : siamo dunque di fronte ad una grande summa dell' etica antica . Nelle Tusculanae l' Arpinate cerca una risposta ai suoi personali interrogativi , una soluzione ai suoi dubbi : di qui la profonda partecipazione emotiva dell' autore agli argomenti trattati . Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi , il De natura deorum , in 3 libri , anch' esso dedicato a Bruto ; il De divinatione , in 2 libri , e il De fato giuntoci incompleto . Le due ultime opere sono presentate esplicitamente dall' autore come integrative e complementari rispetto alla prima . Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche . L' impegno ciceroniano nell' attività filosofica é soprattutto moralistico , e non dimentica i doveri del cittadino al servizio dello stato . Interessante in questi dialoghi é il ricercare sempre la conseguenza pratica , la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche : si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana . In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì , nei suoi anni maturi , al probabilismo degli Accademici , una sorta di scetticismo pragmatico , che senza negare l' esistenza di una verità oltre i fenomeni , si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile , utile a orientare l' azione e ad essa funzionalizzata . Nel libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere l' esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni : se tutto é opinabile , allora non vi sarà più nè certezza nè verità . L' Arpinate replica che anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità ; nemmeno pensa , come gli scettici che esistano più verità . In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza : astenendosi egli stesso dal formulare un' opinione precisa , si sforza di esporre le diverse opinioni possibili , e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre . L' eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso , che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico . La stessa ideologia della humanitas , alla cui elaborazione l' Arpinate diede un contributo notevolissimo , invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza : dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro turno per prendere la parola : siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle loro un arricchimento culturale . Ma c' é un caso in cui il contraddittorio e la confutazione , pur senza scadere nella zuffa , si fanno talora più violenti e indignati : l' eclettismo ciceroniano , come già anticipato , mostra una chiusura radicale verso l' epicureismo , alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum . I motivi dell' avversione ciceroniana verso l' epicureismo sono soprattutto due , tra loro strettamente connessi : in primo luogo la filosofia epicurea porta al disinteresse per la vita politica ( " vivi di nascosto " era il loro motto ) , mentre dovere dei boni é l' attiva partecipazione alla vita pubblica ; inoltre l' epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità ( per quanto non ne neghi l' esistenza ) e indebolisce così i legami con la religione tradizionale , che per Cicerone rimane la base fondamentale dell' etica . Va poi detto che l' Arpinate vedeva negativamente la ricerca del piacere ( voluptas ) propugnata dagli epicurei , i quali non esitavano a collocarla tra le somme virtù : ora é evidente che se ogni cittadino vivesse " di nascosto " alla ricerca del piacere personale lo stato si sfascerebbe ; inoltre mettere la voluptas tra le virtù é come mettere una prostituta tra signore per bene , dice Cicerone . Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso dei dialoghi di argomento religioso e teologico . Nel De natura deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell' indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane . Successivamente viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale , mentre in uno dei libri successivi ( il III ) l' Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico . Più interessante risulta il De divinatione , anche perchè legato a vicende più contemporanee a Cicerone , che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti inferiori . Tornando al De finibus bonorum et malorum , Cicerone , dopo aver confutato la tesi epicurea , esamina quella stoica : riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più solide all' impegno dei cittadini verso la collettività , ma tuttavia si sente lontano per cultura e gusti : il loro rigore etico gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana . Cicerone , invece , apprezza le tesi scettiche : la verità é per lui irraggiungibile , e l' uomo si può solo avvicinare ad essa applicando la virtus ; l' eclettismo ciceroniano non a caso si basa su ideali scettici : dato che la verità é irraggiungibile , tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da ognuna di esse il meglio . Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia . Nel Cato maior de senectute Cicerone trasfigura l' amarezza per una vecchiaia la quale , oltre al decadimento fisico e all' imminenza della morte , sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico . Tuttavia Cicerone , immedesimandosi nell' austera figura di Catone il Censore , tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l' otium e la tenacia dell' impegno politico , due opposte esigenze che l' Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto l' arco della sua vita . Diversa , più combattiva , é l' atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia , il quale , all' indomani dell' uccisione di Cesare , accompagna il rientro di Cicerone sulla scena politica . Il dialogo é immaginato svolgersi nel 129 , lo stesso anno del De re publica : pochi giorni dopo la scomparsa di Scipione nel corso delle agitazioni graccane . Rievocando la figura dell' amico scomparso , Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell' amicizia stessa . Amicitia per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico . Nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato aristocratico , il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici . La novità dell' impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas : a fondamento dell' amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti a vasti strati della popolazione . L' amicizia propagandata da Lelio non é solo un' amicizia politica : si avverte in tutta l' opera un disperato bisogno di rapporti sinceri , quali Cicerone , preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica , potè forse trovare solo in Attico . La stesura del De officiis venne iniziata probabilmente nell' autunno del 44 : si tratta stavolta di un trattato,non di un dialogo,dedicato al figlio Marco , allora studente di filosofia ad Atene.L' opera é il prodotto di un' elaborazione rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche : mentre sta combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina definitiva,Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro,indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all' aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società La base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio.Nel de officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica.I 3 libri di cui il De officiis é composto trattano rispettivamente dell' honestum , dell' utile e del conflitto tra di loro.Lo stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio : le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali . La virtù fondamentale per Panezio era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla prima spetta di " dare a ciascuno il suo ", la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo.La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani,che,attraverso gli officia e l' elargizione nei confronti dei concittadini,sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato ; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi : può essere strumento di corruzione , infatti , il donare denaro oppure l' effettuare benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse.Perciò l' Arpinate sottolinea con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la grandezza d' animo;ebbene,bisogna riprende questa concezione , ma , paradossalmente , a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni,come gli onori,la ricchezza,il potere. Questo è solo il titolo, domani vi posterò il testo completo. mmm,la tua argomentazione regge,tuttavia io avrei integrato anghe il pensiero di Marx Karl Heinrich Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883) è stato un filosofo, economista, storico, sociologo e giornalistatedesco. Firma di Karl Marx In italiano è a volte chiamato Carlo Marx, col prenome tradotto. Il suo pensiero è incentrato, in chiave materialista, sulla critica dell'economia, della politica, della società e della cultura a lui contemporanea. Teorico del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico[1], filosofico ed economico[2] nella storia del Novecento. Karl Heinrich Marx viene alla luce in Prussia, a Treviri, (in tedesco, Trier), il 5 maggio 1818 da Henriette Pressburg (1788, 1863, zia degli industriali Anton e Gerard Philips, futuri fondatori della Philips) e Heinrich (Heschel) Marx (Heschel Marx Levi Mordechai 1782-1838)[3][4] - figlio di Marx Levi, rabbino di Treviri - avvocato ebreo, descritto come uomo colto e fine, educato nel razionalismo illuminista, tanto da conoscere quasi a memoria molto di Voltaire e di Rousseau, il quale non si legò mai agli ambienti culturali ebraici tradizionali. Si battezzò nel 1817 entrando nella Chiesa luterana col nome di Heinrich; lo stesso fece ai figli nel 1824. La conversione fu probabilmente più per opportunistica convenienza che per fede: i Marx evitavano così le discriminazioni alle quali erano soggetti gli ebrei sotto la Prussia di Federico Guglielmo III. Anche per merito della conversione, obbligatoria dopo il Congresso di Vienna per esercitare liberamente la professione di avvocato, il padre riuscì a esercitare, ed entrare membro del Justizrat, consiglio giudiziario, titolo non accademico ma di alto prestigio, nel 1831.[5] Treviri, importante centro culturale della Renania-Palatinato, ma fin dalla Guerra dei Trent'anni contesa e ripetutamente occupata dalla Francia fino all'ultima occupazione del 1794, era stata legata da vincoli commerciali con le altre città francesi godendo di tutte le riforme di ordine sociale che gli esiti della la Rivoluzione avevano introdotto in patria, poi governata da Napoleone I, con l'annessione alla Prussia nel 1815, la cui politica era fortemente conservatrice, perse i diritti costituzionali e i vantaggi economici che il precedente legame le aveva garantito.Con il padre, che ebbe certamente un influsso considerevole sulla sua formazione intellettuale, Karl sarà sempre legato da vincoli di affetto e di stima; non così avvenne con la madre Henrietta, ritenuta da alcuni una donna intellettualmente arida - o forse soltanto una persona molto semplice - che gli rimprovererà sempre di non essersi fatto una posizione adeguata al suo rango sociale e alle sue capacità intellettuali, né con i suoi fratelli, Sophie (1817 - 1883), Hermann (1819 - 1842), Henriette (1820 - 1856), Louise (1821 - 1893), Caroline (1824 - 1847) ed Eduard (1834 - 1837).[6] Nel 1830 si iscrive al liceo di Treviri ottenendo la licenza il 17 agosto 1835. Ci sono pervenuti i temi di greco, latino, matematica,francese, religione e tedesco; ad esempio, in latino scrive una dissertazione sul principato di Augusto: An principatus Augusti merito inter feliciores reipublicae Romanae aetates numeretur? (Il principato d'Augusto si può giustamente annoverare tra i più felici periodi della republica romana?)[7]; in tedesco, Considerazione di un giovane sulla scelta del proprio avvenire, dove scrive tra l'altro: «la guida che ci deve soccorrere nella scelta d'una condizione è il bene dell'umanità, la nostra propria perfezione. Non si obietti che i due interessi potrebbero contrapporsi l'un l'altro [...] la natura dell'uomo è tale che egli può raggiungere la propria perfezione individuale solo agendo per il perfezionamento e il bene dell'umanità».[8]Nel 1835, su consiglio del padre, Karl si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bonn, ma antepone agli studi di diritto quelli filosofici e letterari nei corsi tenuti da Wilhelm August Schlegel. Partecipa alla vita goliardica e bohémienne, alla quale si mescolano anche forme di opposizione politica, e sostiene il duello di rito fra le matricole universitarie, trascorrendo anche un giorno in prigione per ebbrezza e schiamazzi notturni[9]; si iscrive a un circolo di poeti e comincia a sentire il peso della sorveglianza poliziesca.[10] Nell'estate del 1836 conosce a Treviri e si fidanza segretamente con la bella Jenny von Westphalen (1814 - 1881), figlia del barone Ludwig von Westphalen, soprannominata «la principessa del sogno»;[11] nell'autunno, su decisione della famiglia, Marx prosegue gli studi nell'Università di Berlino, dove fino a cinque anni prima aveva insegnato Hegel, con gli autorevoli giuristi Friedrich Carl von Savigny eEduard Gans.[11] Il primo, appartenente alla vecchia scuola storica, conservatore, considerava il diritto una creazione dello spirito popolare (Volksgeist); il secondo, hegeliano e liberale, concepiva il diritto come prodotto dello sviluppo dialettico dell'Idea e, studioso anche del Saint-Simon, era favorevole a riforme sociali che alleviassero le condizioni delle classi popolari. Con una formazione culturale di impronta illuministica, Marx inizia a scrivere una Filosofia del diritto che tuttavia interrompe dopo un centinaio di pagine, convinto che senza un sistema filosofico non si può concludere nulla. Durante il decorso di una malattia legge tutte le opere di Hegel, ricevendone una forte impressione.[11] Giovane hegeliano [modifica] Alla fine di quell'anno Marx scrive e dedica tre quaderni di poesie alla fidanzata, il "Buch der Lieder" (Libro dei canti) e due "Bücher der Liebe" (Libri dell'amore) che non ci sono pervenuti; è invece pervenuto un quaderno di poesie dedicato il 10 novembre 1837 al padre in occasione del suo cinquantacinquesimo compleanno, comprendenti anche 4 epigrammi su Hegel; in uno è scritto:[12] « Kant e Fichte vagavano fra nuvole lassù cercando un paese lontano. Io cerco d'afferrare con destrezza solo quanto ho trovato sulla strada » In quell'occasione comunica al padre la decisione di abbandonare gli studi giuridici per dedicarsi a quelli filosofici. L'hegelismo era l'espressione culturale e filosofica allora dominante in Prussia: i sostenitori del potere assoluto ne davano un'interpretazione conservatrice ed erano per questo motivo appartenenti alla cosiddetta destra hegeliana, mentre i fautori di un rinnovamento politico e culturale in senso liberale e democratico, definiti giovani hegeliani o Sinistra hegeliana, esaltavano invece gli aspetti progressivi dell'hegelismo, in particolare della dialettica, per la quale tutta la realtà, anche sociale e politica, è un continuo divenire.Non potendo attaccare l'assolutismo monarchico la critica dei giovani hegeliani era rivolta contro la religione ufficiale: nel 1835 David Friedrich Strauß aveva pubblicato una eterodossa Vita di Gesù interpretando i vangeli come un insieme di miti. Bruno Bauer, docente diteologia, confuta le sue tesi dalle colonne del "Periodico di teologia speculativa" cui prendono parte i maggiori esponenti della destra hegeliana. Marx si trovò così a frequentare dal 1837, nel sobborgo di Stralau, il Doktorklub, un circolo berlinese di giovani hegeliani, che passò in breve da posizioni monarchiche liberali a posizioni giacobine, assumendo il nome de Gli amici del popolo.[11] Prepara, dalla fine del 1838 al 1840, una Storia della filosofia epicurea, stoica e scettica come tesi per la sua laurea ma, data la vastità dell'impegno, la interrompe: così si laurea in filosofia il 15 aprile 1841 nell'Università di Jena con una tesi sulla Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Di essa vale la pena citare i passi finali della prefazione:[13] «La filosofia [...] griderà sempre agli avversari con Epicuro: empio non è colui che nega gli dèi del volgo, ma colui che attribuisce agli dèi i sentimenti del volgo. La filosofia non fa mistero di ciò. La confessione di Prometeo: francamente, io odio tutti gli dèi è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l'autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono dell'apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dèi Ermes: io, t'assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero esser di Giove. Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico».La conclusione dei suoi studi universitari coincide con l'aggravarsi della repressione governativa sulla vita politica e culturale; a farne le spese, fra gli altri, è l'amico Bruno Bauer, cui è impedita l'attività accademica nell'Università di Jena. Lo stesso Marx, che pensava a una carriera universitaria, avverte l'urgenza di un diretto impegno politico. Esordisce con le Osservazioni sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia, un articolo scritto tra il gennaio e il 10 febbraio 1842 per i "Deutsche Jahrbücher" (Annali tedeschi) di Arnold Ruge, il quale però, prudentemente, non lo pubblica: vedrà la luce soltanto il 13 febbraio 1843 negli "Anekdota zur neuesten deutschen Philosophie und Publizistik" (Aneddoti per la recente filosofia e pubblicistica tedesca).Il debutto pubblico di Marx come giornalista avviene pertanto il 5 maggio 1842 con i Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione dei dibattiti alla Dieta nella Rheinische Zeitung(Gazzetta renana), quotidiano di Colonia, finanziato dalla borghesia liberale renana, in cauta opposizione al regime prussiano e gestito dal circolo radicale capeggiato da Moses Hess, soprannominato il "rabbino rosso" per le origini ebraiche e perché sostenitore dell'integrazione ebraica nel movimento universalistico socialista. Divenuto amico e collaboratore di Karl Marx e Friedrich Engels convertì quest'ultimo al comunismo. «La prima libertà di stampa» - scrive -«consiste nel fatto che essa non è un'industria», mentre «la vera e propria cura radicale della censura sarebbe la sua abolizione»[14]. Nel settembre 1842 si trasferisce da Bonn a Colonia per dedicarsi a tempo pieno all'attività pubblicistica: nell'ottobre è redattore capo del giornale che, affermatosi come il maggior organo di opposizione, riceve l'accusa di essere comunista dalla reazionaria Gazzetta generale di Augusta a seguito di articoli di Hess che esaltavano le teorie di Charles Fourier. Marx risponde il 16 ottobre che «la Rheinische Zeitung, che non può concedere alle idee comuniste, nella loro forma odierna, neppure attualità teoretica e quindi ancor meno desiderare o ritenere possibile la loro realizzazione pratica, sottoporrà queste idee a una critica approfondita. Ma se la Gazzetta d'Augusta pretendesse più che frasi brillanti, comprenderebbe che scritti come quelli di Leroux, Considerant e soprattutto la penetrante opera di Proudhon, non possono essere criticati con estemporanee trovate superficiali, ma solo dopo uno studio lungo, assiduo e molto approfondito»[15]. Dal tono circospetto della risposta s'intuisce già un interesse di non poco momento da parte di Marx per tali idee. Marx lascia il 17 marzo 1843 la redazione del giornale, che viene soppresso dal governo il 21 marzo, «a causa della situazione in cui la censura pone il giornale»: scrive al Ruge «Ero stanco dell'ipocrisia, della brutalità poliziesca e anche del nostro servilismo. Il governo m'ha reso la mia libertà. In Germania non posso più intraprendere nulla: finirei col corrompermi»[16].Sposa Jenny von Westphalen il 19 giugno 1843 nella chiesa di San Paolo a Kreuznach, dove viveva la fidanzata, e partono insieme per Parigi, per pubblicare con Ruge la nuova rivista "Deutsch - franzősische Jahrbücher" (Annali franco - tedeschi) in collaborazione con Heinrich Heine, Moses Hess, Georg Herwegh e Friedrich Engels, ricco imprenditore tedesco che diviene da questo momento l'amico di tutta la sua vita e il suo principale finanziatore.[17] che riconoscerà Frederick Demuth (1851-1929), un figlio naturale che Marx ebbe con la governanteHelene Demuth[18][19] Una lettera inviata a Ruge nel settembre del 1843 chiarisce il senso della sua parziale presa di distanza dagli intellettuali della sinistra hegeliana[20]: « Come la religione è l'indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo stato politico lo è delle loro battaglie pratiche [...] il critico non solo può, ma deve interessarsi dei problemi politici [...] il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l'analisi della coscienza mistica oscura a sé stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. » Degli Annali esce tuttavia solo un fascicolo doppio nel febbraio 1844; Marx vi pubblica La questione ebraica e l'Introduzione alla propria Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico - che tuttavia sarà pubblicata solo nel 1927 - in cui rileva come Hegel non subordini la realtà all'Idea ma, al contrario, conservi la presente realtà tedesca, fingendo di trascenderla, e spacci lo Stato prussiano come Idea di Stato. Una vera teoria della società è dunque possibile, secondo Marx, solo mettendo da parte ogni idea di società in generale, analizzando invece la società materialmente determinata. L'opera rappresenta il suo distacco dal pensiero hegeliano, del quale tuttavia non individua ancora il metodo di mistificazione della realtà. Sulla questione ebraica [modifica] Nell'articolo comparso sugli Annali franco-tedeschi nel 1844 intitolato Sulla questione ebraica Karl Marx risponde alla teoria di Bruno Bauer che aveva giudicato possibile l'emancipazione degli ebrei in Prussia soltanto creando uno Stato laico, che quindi eliminata la religione avrebbe eliminato con essa le discriminazioni. «La forma più rigida del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione. Quando ebreo e cristiano riconosceranno che le reciproche religioni non sono altro che differenti stadi di sviluppo dello spirito umano, non sono altro che differenti pelli di serpente deposte dalla storia, e che l'uomo è il serpente che di esse si era rivestito, allora non si troveranno più in rapporto religioso, ma ormai soltanto in un rapporto critico, scientifico, umano»[21]. Marx ritiene che la risposta di Bauer poggi su un equivoco. Bauer, infatti, pensa che l'emancipazione umana coincida con l'emancipazione politica: «noi rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica solo lo "Stato cristiano", non lo "Stato in sé", che non ricerca il rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana, e perciò pone condizioni che sono spiegabili soltanto con un'acritica confusione tra l'emancipazione politica e quella umana in generale»[22]. Invece per Marx esistono tre possibili emancipazioni: religiosa, politica e umana. Bauer si è fermato alle prime due forme, Marx ritiene fondamentale giungere alla terza. L'emancipazione politica non è ancora quella umana, e a suffragio di questa tesi Marx porta l'esempio degli Stati Uniti in cui nonostante esista uno stato laico, nella vita reale esistono differenze colossali nei comportamenti a seconda che siano rivolti a un protestante o a un ateo. Marx quindi ritiene che l'emancipazione politica non riguardi l'uomo reale, terreno, bensì un uomo astratto con pari diritti e dignità, celando invece le enormi sperequazioni esistenti realmente: «Il limite dell'emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza che l'uomo sia un uomo libero [...] e la stragrande maggioranza non cessa di essere religiosa per il fatto di essere religiosa privatim [...] Ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente dello Stato libero, non è tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne consegue che l'uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre tale limite, in contrasto con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale»[23]. Lo Stato con le sue leggi riguardanti "l'uomo" (costruito sorvolando sugli elementi particolari per poter costruire un'universalità) scinde l'essere umano tra il cielo delle leggi, lo Stato politico e la terra, la realtà, la società civile. Sdoppia quindi la vita dell'uomo tra il citoyen, il cittadino soggetto politico con diritti e doveri, e il bourgeois, il borghese membro della società civile avente i propri interessi privati: «Il conflitto nel quale si trova l'uomo come seguace di una religione particolare, con se stesso in quanto cittadino, con gli altri uomini in quanto membri della comunità, si riduce alla scissione mondana tra lo Stato politico e la società civile. La contraddizione nella quale si trova l'uomo religioso con l'uomo politico, è la medesima contraddizione nella quale si trova il bourgeois con il citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con il suo travestimento politico»[24]La critica di Marx si sposta così ai "diritti dell'uomo": essi sono il prodotto storico della Rivoluzione americana e di quella francese, in essi quindi si cela una mistificazione. L'uomo, soggetto di questi diritti, non è altro che l'individuo privato della società civile e perciò caratterizzato da interessi particolari, celati sotto una fasulla universalità: «Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria»[25]. Nella società borghese quindi sussistendo questa scissione tra pubblico e privato l'uomo è solo "sulla carta", astrattamente, membro dello Stato, in quanto solo nella sfera giuridica e politica ogni uomo è uguale agli altri, non già nell'ambito reale della vita economica e sociale, in cui tutti gli uomini sono diseguali. Quando l'uomo reale riassumerà in sé l'astratto citoyen nella sua vita empirica diventando membro della specie umana dove tutti gli uomini, in quanto tali, sono eguali, soltanto allora l'emancipazione umana sarà compiuta. La società umana, non quale è ma quale dovrebbe essere, è perciò ipotizzata da Marx come razionale e unitaria, priva di conflitti, tanto che in essa non è necessaria l'esistenza di diritto e di politica, in quanto la libertà è in essa realizzata in una unità organica di tutti gli individui, è «unità di società e di individuo»[26]. L'egualitarismo e l'anti-liberalismo di Marx muovono dal presupposto di un «intransigente organicismo, che non lascia margini di autonomia all'individuo»[27]. Nel "Vorwärts!" (Avanti!), giornale degli emigrati tedeschi a Parigi, Arnold Ruge pubblica Il re di Prussia e la riforma sociale, giudicando negativamente una sommossa di tessitori della Slesia nel giugno 1844, perché la considera senza prospettive politiche concrete. Marx risponde con l'articolo Osservazioni critiche a margine, considerando l'insurrezione del proletariato slesiano il segno che anche nell'arretrata Germania maturino condizioni rivoluzionarie, e rompe con Ruge, che accusa di intellettualismo estetizzante e di essere un rivoluzionario solo a parole. Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico [modifica] La religione e Feuerbach [modifica] Anche questo articolo viene pubblicato sugli Annali franco-tedeschi durante il primo soggiorno parigino di Marx nel 1844. In contrasto con Ludwig Feuerbach che sosteneva che l'epoca in cui viveva segnava il tramonto della religione, Marx precisa come invece nella religione coabitino un'istanza critica oltreché quella illusoria[28]. Se per Feuerbach la religione è frutto della coscienza capovolta del mondo, per Marx ciò è dovuto al fatto che la società stessa sia un mondo capovolto. La religione è espressione, è critica della miseria reale in cui l'uomo si trova, con la sua stessa presenza denuncia l'insopportabilità del reale per l'uomo.[29]. La religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli»[30], ottunde i sensi nel rapporto con la realtà, è un inganno che l'uomo perpetra a se stesso. Incapace di cogliere le motivazioni della propria condizione l'uomo la considera come dato di fatto (causa del peccato originale) cercando consolazione e giustificazione nei cieli religiosi. Una concreta liberazione dalla religione non si avrà, come per Bauer, eliminando la religione stessa bensì cambiando le condizioni e i rapporti in cui l'uomo si trova degradato e privato della sua propria essenza. Il proletariato [modifica] All'emancipazione politica deve seguire l'emancipazione umana; essa è raggiungibile attraverso una "classe universale" priva di interessi particolari, che avendo subíto non un torto particolare, ma l'ingiustizia totale, non rivendica un solo diritto particolare ma può emancipare se stessa e l'intera società. Il soggetto dell'emancipazione umana sarà il proletariato, classe in cui l'essenza dell'uomo è andata completamente perduta e che per ciò stesso può riappropriarsene. Occorre rendere cosciente il proletariato di aver perso la sua essenza e quindi del suo scopo rivoluzionario. In questo modo la filosofia, la teoria diventano realizzabili praticamente e il proletariato diventa «il vero erede della filosofia classica tedesca»[31] Manoscritti economico-filosofici del 1844 [modifica] Stimolato dalla lettura dell'Abbozzo di una critica dell'economia politica di Engels in cui si mostra come l'accumulazione capitalistica generi crisi economiche che acutizzano i conflitti sociali, Marx intraprende a Parigi lo studio degli economisti classici e dei loro critici (Proudhon, Sismondi). Frutto di questo intenso periodo di studio sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844, editi solo nel 1932.In una suggestiva analisi che unisce la concretezza dell'indagine economica, utilizzando lo strumento della dialettica, alla critica della falsificazione della stessa dialettica in chiave "spiritualistica" operata da Hegel e dai suoi seguaci, Marx dà la prima definizione teoretica del comunismo, come «la vera risoluzione dell'antagonismo fra esistenza ed essenza, tra oggettivazione e autoaffermazione, tra libertà e necessità, tra l'individuo e la specie». La società comunista è «l'unità essenziale [...] dell'uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell'uomo e l'umanesimo compiuto della natura»[32]. I Manoscritti sono costituiti da tre parti, in base ai temi: La critica all'economia classica; La descrizione del comunismo; La critica della dialettica hegeliana. La critica dell'economia classica e l'alienazione [modifica] Nella trattazione del primo tema indaga le leggi che regolano il mercato e l'industria, contrariamente a quanto sosteneva Adam Smith non vi era proprio nulla di armonico e naturale nei rapporti economici, bensì l'economia è terreno di conflitti da cui non si può astrarre (come fecero gli economisti classici considerandoli accidentali). Marx contesta agli economisti classici di aver occultato e mascherato un certo modo di produzione, quello capitalista, con leggi ritenute naturali e immutabili ritenendo un dato di fatto l'esistenza della proprietà privata. Alla domanda, nonché titolo dell'opera, "Che cos'è la proprietà privata?" Proudhon aveva risposto: un furto. L'economia politica, per Marx, aveva trascurato il rapporto tra l'operaio, il suo lavoro e la produzione per celare l'alienazione, caratteristica del lavoro nella società industriale moderna. L'alienazione, termine che Marx recupera da Hegel, è il "diventare altro", il "cedere ad altri ciò che è proprio". Nella produzione capitalistica può assumere vari aspetti tra di essi legati: «l'operaio diviene tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che egli produce [...] diventa una merce tanto più vile quanto più grande la quantità di merce prodotta [...] l'operaio viene a trovarsi rispetto all'oggetto del suo lavoro come a un oggetto estraneo [...] l'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diviene di fronte a lui una potenza per sé stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto gli si contrappone ostile ed estranea»[33]. L'alienazione riguarda l'operaio e il prodotto del suo lavoro. Tale prodotto del suo lavoro non gli appartiene ma appartiene al capitalista, gli è estraneo. L'attività produttiva non è il soddisfacimento di un bisogno, ma un mezzo per soddisfare dei bisogni estranei al lavoro stesso; il lavoro non appartiene al lavoratore ma appartiene a un altro e dunque egli, lavorando, non appartiene a sé ma a un altro. L'operaio così si estrania da sé e non considera il lavoro come parte della sua vita reale (che si svolge fuori dalla fabbrica). L'operaio perde la sua essenza generica, cioè ciò che contrassegna l'essenza dell'uomo. Per uomo, Marx, intende l'essere che si realizza storicamente nel genere di cui fa parte. Caratteristica del genere umano è il lavoro, che lo differenzia dall'animale, e gli consente di istituire un rapporto con la natura attraverso cui si appropria della natura stessa[34]. Il lavoro in fabbrica viene ridotto a mera sopravvivenza individuale, non è quindi espressione positiva della natura umana. In fabbrica si perde la dimensione di comunità. Si parla così di alienazione della sua essenza sociale. L'operaio così si sente un uomo soltanto nelle sue funzioni animali - mangiare, bere, procreare - mentre si sente un animale nel lavoro, cioè in quella che dovrebbe essere un'attività tipicamente umana[35]. L'unità organica dell'umanità, che si realizza nell'attività e nei rapporti sociali, è frantumata dalla proprietà privata, la quale separa, come visto, l'uomo dalle sue attività e dai prodotti di esse. Tanto Hegel quanto gli economisti classici hanno visto il lavoro come elemento costitutivo dell'essenza umana. Gli economisti però videro nel lavoro il solo lato positivo, accettandolo come un qualcosa di naturale, esente da mutamenti storici. Per Marx, Hegel, aveva colto il carattere storico del lavoro, lo spirito infatti è autoproduzione (tramite la perdita e la riappropriazione) di sé stesso così come l'uomo è frutto del proprio lavoro. L'unica pecca è stato limitare questo processo al pensiero, all'autocoscienza. L'alienazione o oggettivazione, anche se riconosciuti come sviluppo del soggetto, vengono ridotti ad un processo spirituale in cui il pensiero (il soggetto) di fronte ad un oggetto altro da sé si oggettiva, cioè si perde in esso, così che la disalienazione non è che un disoggettivarsi del soggetto dal mondo esterno per tornare in sé stesso (pensiero). Marx recupera quindi, secondo l'insegnamento di Feuerbach, la corporeità e la sensibilità come aspetto essenziale, come elemento primo ineliminabile dell'uomo. L'uomo è unessere naturale, e non c'è negatività che vada superata nel suo oggettivarsi nella natura, ma è anche un essere storico in quanto capace di rimuovere l'alienazione (oggettivazione) recuperando la sua essenza generica che si basa sul rapporto con l'oggettività, cioè l'appropriazione della natura in collaborazione con gli altri uomini. Il comunismo [modifica] Se la proprietà privata è quindi l'espressione della vita umana alienata, la soppressione di essa e dei rapporti sociali che la generano e la tutelano non è che la soppressione di qualsiasi alienazione. Il comunismo è l'eliminazione dell'alienazione, quindi della proprietà privata, operazione che coincide con il recupero di tutte le facoltà umane e la liberazione dell'essenza umana. Il comunismo, a differenza delle forme che Marx definisce di comunismo rozzo o utopista, è l'esito verso cui procede lo sviluppo storico[36]. Nella società che ha a sua base la proprietà privata, «il denaro è il potere alienato dell'umanità. Quello che non posso come uomo e quindi quello che le mie forze individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che essa in sé non è, cioè ne fa il suo contrario»[37]. Il denaro soddisfa i desideri e li traduce in realtà, traduce l'essere rappresentato in essere reale ma traduce anche, al contrario, la realtà a semplice rappresentazione: «Se ho vocazione allo studio, ma non ho denaro per realizzarla [...] non ho nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se non ho realmente nessuna vocazione, ma ho volontà e denaro, ho una vocazione efficace [...] il denaro è dunque l'universale rovesciamento delle individualità che capovolge nel loro contrario [...] muta la fedeltà in infedeltà, l'amore in odio, l'odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù [...] è l'universale confusione e inversione di tutte le cose»[38]. Senza la necessità sociale del denaro, cioè senza la proprietà privata[39], « presupponendo l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore solo con amore, fiducia solo con fiducia. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l'uomo e la natura dev'essere una manifestazione determinata e corrispondente all'oggetto della tua volontà, della tua vitaindividuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare un'amorosa corrispondenza, se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d'amore, se nella tuamanifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un'infelicità. » L'alienazione religiosa [modifica] Marx riprende inoltre l'interpretazione di Feuerbach dell'alienazione religiosa che egli tuttavia estende all'ambito economico individuato come fondamento di tutte le alienazioni umane: « L'estraneazione religiosa avviene solo nella sfera della coscienza, dell'interiorità umana; l'estraneazione economica è invece l'estraneazione della vita reale, per cui la sua soppressione abbraccia entrambi i lati. » Ma è anche prossimo il distacco da Feuerbach e le fondazioni del materialismo storico - laddove scrive che «La religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, l'arte non sono che modi particolari della produzione» - e della filosofia della prassi, scrivendo che «la soluzione delle opposizioni teoretiche [è] possibile solo in maniera pratica [...] non [è] solo un compito teoretico, ma un compito reale»[40]. Grazie ai rapporti della polizia prussiana sappiamo come egli, nell'estate del 1844, frequentasse i circoli degli operai e degli artigiani parigini e i socialisti Pierre-Joseph Proudhon,Louis Blanc e l'anarchico russo Michail Bakunin. Il governo prussiano ne chiede l'espulsione dalla Francia e Marx, con la moglie e la piccola figlia Jenny, il 5 febbraio 1845 si stabilisce a Bruxelles, dove è accolto a condizione che non pubblichi alcuno scritto politico. Manoscritti economico-filosofici del 1844: la natura [modifica] Una concezione della natura che esula dal panorama filosofico dell'800 è quella che Marx espone ne I manoscritti economico-filosofici del 1844. A seguito di quest'opera la tematica dell'alienazione viene intesa in un senso più profondo e non più semplicemente politico. Marx stabilisce una connessione tra ciò che rappresenta l'essenza dell'uomo, l'attività dove l'uomo esprime tutto se stesso spirito e corpo: il lavoro che, al di fuori di ogni separazione tra teoria e prassi, si identifica con l'oggetto lavorato, il quale a sua volta non è altro che l'oggetto naturale che l'uomo appunto modifica. La natura stessa quindi è il risultato dell'attività umana. Questa connessione tra uomo-lavoro-oggetto lavorato-natura viene fatta saltare dall'alienazione che espropria il lavoratore non solo del prodotto del lavoro ma anche dell'atto della produzione. Come effetto del lavoro alienato l'uomo restringe la propria umanità alla sfera dei bisogni bestiali, si trasforma in una merce e subisce le conseguenze dello sconvolgimento del rapporto uomo e natura. L'uomo è infatti un ente che si pone consapevolmente in rapporto di continuità con la natura; egli vive della natura e nella sua attività produttiva la natura gli si manifesta come opera dell'uomo. Quando gli viene sottratto con l'alienazione l'oggetto del lavoro anche la natura gli viene sottratta. La natura cioè da "corpo inorganico dell'uomo"[41] amica benigna quando soddisfaceva i bisogni sociali dell'uomo, diviene mezzo di produzione subordinato al bisogno individuale. La vita umana che era inserita in una natura amica e non estranea (la "vita del genere") quando diventa un mezzo per il soddisfacimento di egoistici bisogni individuali si trasforma in una forza nemica, opposta ed estranea. « [XXII]...L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all' esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea. [XXIII] Ed ora consideriamo più da vicino l'oggettivazione, la produzione dell'operaio, e in essa l'estraniazione, la perdita dell'oggetto, del suo prodotto. L'operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce. Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non può sussistere senza oggetti su cui applicarsi; cosi essa, d'altra parte, fornisce pure i mezzi di sussistenza in senso più stretto, cioè i mezzi per il sostentamento fisico dello stesso operaio. Quindi quanto più l'operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione: prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appartenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stesso mondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioè un mezzo per il suo sostentamento fisico.[42] »Il periodo di Bruxelles è fecondo di studi teorici: già nel settembre del 1844 aveva scritto insieme con Engels La sacra famiglia o Critica della critica critica, una satira di quegli hegeliani di sinistra che egli chiama "illuministi", come Bruno Bauer e altri, pubblicato nel 1845. Un attacco a tutti coloro che si illudevano di trasformare la società limitandosi alla critica. In quest'opera Marx ed Engels fanno propria la concezione dell'umanesimo reale di Feuerbach, come confermerà lo stesso Marx, più di vent'anni dopo, scrivendo a Engels che quello scritto gli sembrava ancora buono, «quantunque il culto di Feuerbach faccia ora un'impressione molto umoristica»[43]. In essa viene mostrata e messa in ridicolo la genesi dell'astrazione della realtà sensibile, la mistificazione della realtà prodotta dall'hegelismo[44]. « Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle - frutti reali - mi formo la rappresentazione generale frutto e immagino che il frutto - la mia rappresentazione astratta, ricavata dai frutti reali - sia un'essenza esistente fuori di me, sia anzi l'essenza vera della pera, della mela, ecc., io dichiaro - con espressione speculativa - che il frutto è la sostanza della pera, della mela, della mandorla ecc. Io dico allora che per la pera non è essenziale essere pera, che per la mela non è essenziale essere mela. L'essenziale, in queste cose, non sarebbe più la loro esistenza reale, sensibilmente intuibile, ma l'essenza che ho astratto da esse e ad esse ho attribuito, l'essenza della mia rappresentazione il frutto. Io dichiaro allora che mela, pera, mandorla ecc., sono semplici modi di esistenza, modi del frutto. Il mio intelletto finito, sorretto dai sensi, distingue certamente una mela da una pera e una pera da una mandorla, ma la mia ragione speculativa dichiara inessenziale e indifferente questa diversità sensibile. Essa vede nella mela la stessa cosa che nella pera, nella pera la stessa cosa che nella mandorla, cioè il frutto. I frutti particolari e reali non valgono più che come frutti apparenti, la cui vera essenza è la sostanza, il frutto [...] Il minerologo la cui scienza si limitasse a dire che tutti i minerali sono in realtà il minerale sarebbe un minerologo solo nella sua immaginazione »Mentre l'uomo comune sa di non dire nulla di straordinario dicendo che ci sono mele e pere, «il filosofo [hegeliano, speculativo], quando esprime queste esistenze in modo speculativo, ha detto qualcosa di straordinario. Ha compiuto un miracolo, ha prodotto dall'essere intellettuale irreale il frutto gli esseri naturali reali, la mela, la pera ecc.; cioè dal suo proprio intelletto astratto, che egli si rappresenta come un soggetto assoluto esistente fuori di sé, che egli si rappresenta qui come il frutto, ha creato queste frutta e in ogni esistenza che esprime, egli compie un atto creativo [...] dichiara la sua propria attività, mediante la quale egli passa dalla rappresentazione mela alla rappresentazione pera, essere l'autoattività del soggetto assoluto, del frutto. Quest'operazione si chiama, con espressione speculativa: concepire la sostanza come soggetto, come processo interno, come persona assoluta, e questo concepire forma il carattere essenziale del metodo hegeliano»[45]. Nei confronti dell'illuminismo e della rivoluzione borghese Marx ebbe sempre un atteggiamento molto severo e critico. Intrisi di sufficienza sono i suoi giudizi sui pensatori materialisti ed atei del XVIII secolo[46]. Totalmente ignorato è Jean Meslier, colui che pone le basi del materialismo settecentesco e di un comunismo primitivo. I rivoluzionari francesi hanno istituito un nuovo tipo di schiavitù da parte della borghesia: «Robespierre, Saint Just e il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sulla base di una schiavitù reale, con lo stato moderno rappresentativo e spiritualmente democratico, che si basa sulla schiavitù "emancipata", sulla società civile. Quale colossale illusione vedersi costretti a sanzionare nei diritti dell'uomo la società civile moderna, quella dell'industria, della concorrenza generalizzata, dell'interesse privato che persegue tranquillamente i suoi obiettivi. E insieme l'anarchia, l'individualità naturale e spirituale alienata a sé stessa»[46] Le Tesi su Feuerbach [modifica] In effetti, se ancora nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Feuerbach era «il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana, che abbia fatto vere scoperte in questo campo e che sia il vero vincitore della vecchia filosofia», già nella primavera del 1845 Marx aveva scritto poche righe su un quaderno ritrovato da Engels dopo la sua morte e pubblicato nel 1886 col titolo di 11 tesi su Feuerbach. Per approfondire, vedi la voce Tesi su Feuerbach. In esse Marx indica che se Feuerbach aveva smascherato il mondo rovesciato della religione ritrovando l'essenza alienata dell'uomo, egli non aveva colto il carattere storico dell'uomo stesso, né che la religione è frutto di condizioni storiche che la rendono possibile. Feuerbach concepisce l'uomo come ente dotato di sensibilità e corporeità, quindi segnato dalla passività, e inserito in un mondo già costituito, Marx alla passività oppone la prassi, cioè attività trasformatrice della natura, e il mondo diventa prodotto dell'attività umana, come già accennato nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Nelle Tesi Marx espone l'idea dell'uomo come ente pratico: «nella prassi deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero - isolato dalla prassi - è una questione meramente scolastica»[47]: è la risposta alla concezione di Feuerbach – e di ogni materialismo volgare – per il quale la realtà esterna è sempre e soltanto qualcosa che sta di fronte all'uomo, senza tener conto che essa è un prodotto dell'attività umana, perché questa, la prassi, è essenzialmente oggettiva, è volta all'esterno. Feuerbach – come tutti i filosofi prima di lui – si era posto il problema della verità del pensiero: ma il pensiero non può verificare se stesso astrattamente, occorre che sia l'attività pratica, volta allo scopo, a verificare la verità delle idee. È questo il difetto di tutta la filosofia, non solo di Feuerbach: quello di essersi limitata a cercare di conoscere la realtà, a interpretare il mondo, «ma si tratta di trasformarlo»[48].Marx ed Engels ne L'ideologia tedesca, portano un attacco alla filosofia tedesca del tempo rappresentata da Ludwig Feuerbach, l'esponente più avanzato del panorama filosofico tedesco, da Bruno Bauer e Max Stirner. Gran parte del libro è dedicata alla critica, volutamente sarcastica e sprezzante, dell'opera principale di Max Stirner "L'Unico e la sua proprietà", inizialmente salutata con un certo favore da Engels ma individuata come un pericolo da Marx. E del resto Stirner, deciso individualista ed "egoista", nonché ateo conseguente, non aveva risparmiato le critiche a quella "società degli straccioni" a cui avrebbe portato, secondo lui, la rivoluzione comunista. L'opera fu pubblicata solo nel 1932 perché, dopo l'avvenuta impossibilità di pubblicazione, il manoscritto fu abbandonato «alla critica roditrice dei topi» dai due autori i quali, avendo chiarito a sé stessi i fondamenti teorici del nuovo materialismo, erano decisi ad affrontare i problemi, più urgenti e politicamente più rilevanti, della critica dell'economia e del diretto impegno nell'attività politica. Il materialismo storico [modifica] Nell'opera è contenuta la prima formulazione organica della concezione materialistica della storia. Marx ed Engels vi esprimono l'esigenza di un sapere che sia prodotto immediatamente dalla realtà concreta e positiva, empirica e verificabile, e che non discenda invece da un presupposto e idealistico «Spirito assoluto» che deduce speculativamente i vari aspetti della realtà secondo un non dimostrato e indimostrabile sviluppo di questo stesso presunto Spirito. Marx ed Engels intendono muovere da «presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti, quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica.»[49]. I rapporti tra gli uomini e con la natura [modifica] Poiché gli esseri umani non vivono isolati in sopramondi ma in reali comunità e nell'immediato contatto con la natura, occorre analizzare tanto i rapporti che essi istituiscono fra di loro - la loro organizzazione sociale - quanto quelli istituiti con la natura, ossia il modo con il quale essi si appropriano e trasformano la natura. I due rapporti non sono scindibili[49]. Poiché gli uomini non sono nemmeno puro spirito, essi devono produrre i propri mezzi di sussistenza, con i quali «producono indirettamente la loro stessa vita materiale», e poiché i mezzi di sussistenza si producono sempre in un qualche modo determinato, quel modo di produrre è già «un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato [...] Come gli uomini esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono, quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione»[49]. La produzione base della storia umana [modifica] Il modo di produzione è storicamente determinato da un particolare sviluppo delle forze produttive, è il risultato di determinate conoscenze scientifiche e della tecnologia connessa, ma è anche il prodotto di relazioni che si sono storicamente determinate fra gli stessi uomini, è il risultato di una particolare organizzazione sociale ed insieme è un elemento che condiziona la forma e lo sviluppo di quelle relazioni sociali. La produzione è la base reale della storia umana: «Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia, oppure l'ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita appare come qualcosa di preistorico, mentre ciò che è storico [...] appare come extra- e sovra-mondano. Il rapporto dell'uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l'antagonismo tra natura e storia»[50]. Neanche il materialismo di Ludwig Feuerbach è in grado di cogliere i reali rapporti esistenti tra gli uomini poiché egli concepisce l'uomo come essere naturale ma non vede che il rapporto dell'uomo con la natura è anche un rapporto dell'uomo con gli altri uomini, è un rapporto sociale.[51]. Le forme della proprietà nella storia [modifica] Ne L'ideologia tedesca è delineato un excursus storiografico che a grandi linee dà conto dello sviluppo delle forme sociali succedutesi nel corso della storia umana[52]. La crescita demografica e la soddisfazione dei bisogni primari genera nuovi bisogni i quali richiedono una maggior divisione del lavoro. La divisione del lavoro è un fenomeno storico, quindi dinamico, che ha assunto varie forme tra cui la divisione tra città (industria e commercio) e campagne (agricoltura). Con il mutare della divisione del lavoro sono mutate anche le forme della proprietà: proprietà tribale, fondata sulla raccolta dei prodotti della terra, sulla caccia, la pesca, e più tardi sulla pastorizia e ancora in seguito sull'agricoltura; la divisione del lavoro è poco sviluppata e alla fine appare la schiavitù, prodotta dalle guerre con le altre tribù; proprietà della comunità antica, in cui ormai si è formato lo Stato, la differenziazione del lavoro appare come antagonismo tra città e campagne, gli schiavi forniscono la forza produttiva di cui fanno uso i loro proprietari, si sviluppano le proprietà mobiliari, immobiliari e il commercio; proprietà feudale, in cui domina l'agricoltura e la società è organizzata gerarchicamente per cui iniziano a formarsi le prime forme di capitale. proprietà del modo di produzione capitalistico, in cui si sviluppa il capitale, il lavoro salariato, la proprietà mobiliare e immobiliare, l'industria, il commercio, la finanza. La «natura» acquista così dinamicità, essa è legata inscindibilmente con i processi dell'industria e i rapporti umani. La storia umana non è più la storia dell'essenza umana generale ma lo sviluppo delle forme di produzione e dell'organizzazione sociale. Struttura e sovrastruttura [modifica] Certamente i modi di produzione non racchiudono l'intera vita sociale ma ne determinano le istituzioni e i rapporti sociali e politiche. La coscienza non determinerà più la realtà ma sarà la realtà a determinare la coscienza. Marx farà distinzione tra: «struttura», i modi di produzione, l'organizzazione economica e sociale; «sovrastruttura», la produzione delle idee e della cultura. Quindi la realtà strutturale condiziona inevitabilmente la sovrastruttura: religione, filosofia, politica, diritto ecc. La divisione del lavoro tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, secondo Marx, ha senz'altro contribuito a sviluppare una fittizia autonomia della sovrastruttura, cioè l'ideologia. Critica dell'ideologia [modifica] L'ideologia non indica più, come per Ideologi e Illuministi, lo studio delle sensazioni e l'origine delle idee, essa per Marx indica la funzione che religione, filosofia e produzioni culturali in genere possono avere nel giustificare la situazione esistente: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante [...] Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee»[53]. Per comprendere il processo storico, più che prestare attenzione alle idee e alla cultura, occorre indagare i modi in cui si produce la vita materiale. La concezione materialistica della storia pone, per Marx ed Engels, il socialismo su basi scientifiche poiché analizza il processo storico e le condizioni reali che gli apriranno la strada.Nell'estate del 1845 Marx ed Engels entrano in rapporto a Londra con l'Associazione dei lavoratori tedeschi, emanazione legale inglese della clandestina Lega dei Giusti, società internazionale che raccoglieva adesioni soprattutto fra gli emigrati politici tedeschi. Teorico della Lega era allora Wilhelm Weitling, un sarto tedesco, autore nel 1842 delle Garanzie dell'armonia e della libertà, conosciute e apprezzate da Marx, non per il contenuto teorico, un misto di comunismo primitivo e di messianismo paleocristiano, quanto per la manifestata necessità di una organizzazione e di una conseguente azione rivoluzionaria. Per Weitling, il popolo era già pronto per una società comunista, a creare la quale bastava l'azione decisa di un pugno di rivoluzionari. Nell'autunno del 1845, convinto della necessità di superare tanto le teorie utopistiche che i moti avventurosi, Marx propone la costituzione di "Comitati di corrispondenza" che mettano in contatto le diverse associazioni comuniste internazionali, in particolare tra Francia,Germania e Inghilterra, per definire teorie condivise e azioni rivoluzionarie comuni.Il 30 marzo 1846, a Bruxelles si tiene una riunione alla quale sono presenti Marx, Engels, Weitling, il belga Philippe Gigot, i tedeschi Edgar von Westphalen, cognato di Marx, Joseph Weydemeyer, Sebastian Seiler e il russo Pavel Annenkov che scrive una relazione della seduta: «Weitling parlò per primo, ripetendo tutti i luoghi comuni della retorica liberale e avrebbe senza dubbio parlato più a lungo se Marx non l'avesse interrotto, la fronte aggrottata per la collera. Nella parte essenziale della sua risposta sarcastica, Marx dichiarò che sollevando il popolo senza fondarne in pari tempo l'attività su basi solide, lo si ingannava. Far nascere speranze fantastiche non portava alla salvezza ma piuttosto alla perdita di quelli che soffrivano; rivolgersi agli operai, e soprattutto agli operai tedeschi, senza avere idee strettamente scientifiche e una dottrina concreta, significava trasformare la propaganda in un gioco privo di senso, peggio, senza scrupoli. Weitling replicò che con la critica astratta non si sarebbe potuto ottenere nulla di buono e accusò Marx di non essere altro che un intellettuale borghese lontano dalle miserie del mondo. A queste ultime parole Marx, assolutamente furioso, diede un pugno sulla tavola così forte che il lume ne tremò, e, alzatosi di scatto, gridò: - Fino ad ora l'ignoranza non ha mai servito a nessuno! Seguendo il suo esempio ci alzammo anche noi. La conferenza era finita, e mentre Marx, eccitato da una collera insolita, andava su e giù per la stanza, io mi accomiatai da lui e dagli altri e ritornai a casa, molto stupito per ciò che avevo visto e udito»[54]. Aderisce alla Associazione democratica di Bruxelles, divenendone vicepresidente; insieme con Engels fonda un Circolo di studi dei lavoratori tedeschi di Bruxelles tenendovi conferenze, poi raccolte nell'opera Lavoro salariato e capitale. Nel novembre 1846 il comitato direttivo chiede a Marx e a Engels di aderire alla Lega, della quale entrano a far parte ufficialmente nel febbraio 1847. Il 1º giugno 1847, nel congresso londinese, la Lega dei Giusti assume il nome di Lega dei comunisti, mutando il motto Tutti gli uomini sono fratelli in quello diProletari di tutto il mondo unitevi, proposto da Marx e divenendo di fatto il primo partito operaio moderno, il cui Statuto, al primo articolo, affermava che: « Scopo della Lega è il rovesciamento della borghesia, il regno del proletariato, la soppressione dell'antica società borghese fondata sugli antagonismi di classe e l'instaurazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata. » (Statuto della Lega dei comunisti, art. 1) Nel secondo congresso di Londra nel novembre 1847 si decide di affidare a Marx e ad Engels la redazione del programma del partito che, col titolo di Manifesto del Partito Comunista, appare nel 1848, poco prima della rivoluzione parigina del 23 febbraio 1848, e viene successivamente tradotto in tutte le lingue europee.Aveva intanto pubblicato in francese, nel 1847, la Miseria della filosofia, una critica della Filosofia della miseria di Proudhon e, nel1848, il Discorso sul libero scambio. La Miseria della filosofia è una confutazione del pensiero economico di Proudhon, «socialista piccolo-borghese e utopista, che fu uno dei fondatori dell'anarchismo»[55] e del metodo da lui utilizzato nella stesura di quella Filosofia della miseria nella quale aveva inteso prospettare una società che superasse l'attuale società capitalistica. Il metodo di Proudhon – sostiene Marx – è ricavato dalla Filosofia della storia di Hegel, è perciò una «anticaglia hegeliana, non è storia profana, la storia dell'uomo, ma storia sacra, la storia delle idee»[56]. Proudhon non comprende la società reale in cui vive e non conosce il reale movimento della storia, perché è rimasto a una concezione idealistica: non ha compreso che «le categorie economiche sono soltanto le espressioni astratte» dei reali rapporti sociali esistenti tra gli uomini, che mutano al mutare dello sviluppo delle forze produttive. Rendendo astratte ed eterne le categorie economiche, come è costume facciano gli economisti borghesi, Proudhon interpreta i rapporti reali degli uomini come fossero una «materializzazione di questa astrazione»[57]Nel Manifesto si analizza la forma sociale borghese come prodotto di un lungo processo storico[58]. « Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. » Con la trasformazione dei rapporti sociali e lo sviluppo delle forze produttive, «anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini, cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale. Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante. Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d'esistenza». È la divisione del lavoro intellettuale e manuale che produce all'interno della stessa borghesia i suoi ideologi, gli intellettuali apologeti, in buona o cattiva fede, dei valori politici, economici, religiosi, morali, giuridici, elaborati in sistemi filosofici e sociologici, riportati ed esaltati nelle interpretazioni dei fatti storici, separando tali idee dominanti dai rapporti che caratterizzano il modo di produzione della società, credendo e propagandando la falsa teoria del dominio storico delle idee le quali si svilupperebbero attraverso un loro moto interno e indipendente. Tali ideologie, o false coscienze, non possono trasformare la struttura sociale ed economica, come alcuni ideologi, più o meno ingenuamente, possono ritenere, essendo esse stesse il prodotto delle relazioni umane materiali che giustificano spiritualmente i rapporti di produzione esistenti e diventano strumento di conservazione del dominio di classe, del potere politico. Non è la critica o il pensiero che riflette su sé stesso, ma è la rivoluzione la forza motrice della storia.[59] La funzione rivoluzionaria della borghesia [modifica] E infatti la borghesia è stata storicamente una forza rivoluzionaria; nella sua lotta contro l'organizzazione feudale della società, nella quale è sorta e si è sviluppata «la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti»[60]. Il sovvertimento dei rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze di produzione da essa operato ha comportato un radicale mutamento delle sovrastrutture ideologiche che si accompagnavano ai rapporti di produzione feudali[60]. « Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti. Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli...ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche [...] ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. » Il suo carattere rivoluzionario ha permesso un'accelerazione di trasformazioni quali non si erano viste in migliaia d'anni. Ha sviluppato come non mai la scienza e la tecnica, ha assoggettato la campagna alla città, ha creato metropoli, ha costretto tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione capitalistico, pena la loro rovina: «In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza»[61]. Ma lo sviluppo delle forze produttive diventa tale da non essere adeguato ai rapporti di produzione, questo genera la crisi e una transizione rivoluzionaria. Così com'è stato in Franciadove la borghesia è stata motore del cambiamento della società feudale, così accadrà nel sistema capitalistico prodotto da essa. Intensificando al massimo la produzione per l'ottenimento del massimo profitto, si favorisce una crisi di sovrapproduzione, si deve distruggere parte della produzione e delle forze produttive perché il capitale possa perpetuarsi; deve distruggere ricchezza e provocare miseria per produrre nuova ricchezza[62]. « La borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari » Marx ed Engels affermano la continuità degli antagonismi di classe in tutte le società che si sono storicamente determinate di modo che il motore della storia è la lotta tra le classi, o conflitto di classe.[63]. « La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi [...] La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. » Il 22 febbraio 1848 Parigi insorge: in due giorni Luigi Filippo di Francia è costretto a fuggire a Londra e viene proclamata la repubblica. La rivoluzione si estende in tutta l'Europa, cancellando l'assetto politico creato nel 1814 dal Congresso di Vienna. La pubblicazione della "Gazzetta tedesca di Bruxelles", di cui Marx è collaboratore, induce il governo prussiano a richiedere l'espulsione di Marx, e quando scoppiano moti popolari anche a Bruxelles, il governo belga arresta Marx e lo espelle[64]. Con il mandato della Lega di costituire un comitato centrale del partito, emigra il 4 marzo a Parigi dove il governo provvisorio lo saluta: "La tirannia vi ha bandito, la libera Francia apre le sue porte a voi e a tutti quelli che lottano per la santa causa della fraternità dei popoli". In Francia già si era verificata la spaccatura fra forze liberali, che temevano l'estremismo proletario, e quelle socialiste; i blanquisti, rifacendosi alla Grande Rivoluzione, chiedevano la guerra rivoluzionaria contro le monarchie assolute. Secondo Marx, essendo la borghesia incapace di condurre la rivoluzione persino nella prospettiva delle conquiste democratiche, il proletariato organizzato doveva mantenere la propria autonomia d'azione e prepararsi allo scontro decisivo per la rivoluzione sociale. Alla fine di marzo la rivoluzione si allarga alla Germania dove tuttavia, rispetto alla Francia, le possibilità rivoluzionarie, per l'assenza di un proletariato numeroso, organizzato e conquistato alle idee socialiste, dovevano limitarsi a richiedere riforme democratiche. Per Marx occorre intanto favorire la comunione d'intenti fra proletariato e forze democratiche sperando in una favorevole evoluzione in Francia che traini la rivoluzione tedesca. Nell'aprile del 1848 Marx, insieme con la famiglia ed Engels, va a Colonia dove il 13 aprile è tra i fondatori dell'Associazione Democratica. Ipoteca l'eredità paterna per raccogliere il denaro necessario a fondare, il 1º giugno 1848 la "Neue Rheinische Zeitung" (Nuova Gazzetta Renana) con Marx come direttore e una redazione composta da membri della Lega. Nello stesso mese la repubblica francese, per mezzo dell'esercito comandato dal generale Cavaignac, stronca il movimento operaio parigino. Marx scrive che l'effimero trionfo della forza bruta ha dissipato tutte le illusioni della rivoluzione di febbraio, ha dimostrato la disgregazione di tutto il vecchio partito repubblicano e la divisione della nazione francese in due parti: quella dei proprietari e quella degli operai. La sconfitta del movimento rivoluzionario ha ripercussioni in tutta l'Europa. I liberali, valutando che per loro è ben più grave il pericolo comunista, cercano un accordo con l'assolutismo semifeudale. Al colpo di Stato prussiano del novembre 1848, la Neue Rheinische Zeitung reagisce esortando a non pagare le tasse e a rispondere con la violenza alla violenza. Per questo, nella primavera del 1849 viene citato due volte in tribunale ma è assolto. Abbandonata dalle deboli forze democratiche, il quotidiano resta l'unica voce d'opposizione in Germania: nel 1849 convoca un congresso operaio tedesco a Lipsia ma nel mese di maggio l'esercito prussiano ristabilisce l'ordine. La Nuova Gazzetta Renana venne soppressa il 19 maggio 1849. Aveva fatto a tempo a pubblicare a puntate dal 4 aprile 1849 il Lavoro salariato e capitale - introducendo la nozione di forza-lavoro, distinta da quella di lavoro, e mostrando l'origine del plusvalore - e un'analisi del momento rivoluzionario in atto, poi ripubblicata con aggiunte da Engels nel 1895 con il titolo Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Con la soppressione del quotidiano, Marx ritorna a Parigi, ma dopo i moti popolari del 13 giugno 1849 il governo francese gli pone l'alternativa di lasciare la capitale e trasferirsi a Vannes, nel Morbihan, una regione paludosa, o di abbandonare la Francia. Sceglie di trasferirsi a Londra, dove vivrà fino alla morte[65]. La maturità Lo studio dell'economia politica [modifica] A Londra, cerca di ricostituire i legami fra gli aderenti della Lega dispersi dopo le sconfitte delle rivoluzioni: nel settembre 1849 viene ricostituito il Comitato centrale della Lega dei Comunisti e nel marzo 1850 esce mensilmente ad Amburgo, sotto la direzione di Marx, la Nuova Gazzetta Renana. Nell'aprile, insieme con blanquisti e cartisti, si costituisce l'Associazione universale dei comunisti rivoluzionari per «il rovesciamento delle classi privilegiate e la loro sottomissione alla dittatura del proletariato, mantenendo la rivoluzione in permanenza fino alla realizzazione del comunismo, che deve essere l'ultima forma di organizzazione del genere umano». Analizzando gli insegnamenti di quel periodo, Marx ed Engels sottolineano la necessità dell'organizzazione e delle alleanze sia con le forze democratiche, senza però dimenticare che queste vogliono conservare il «modo capitalistico di produzione»[66]), che va invece abbattuto, sia con le masse contadine, alle quali occorre prospettare i vantaggi della confisca rivoluzionaria dei grandi latifondi da trasformare in aziende agricole statali. Ma si manifestano contrasti all'interno della Lega; per Marx non ci sono prospettive rivoluzionarie immediate, mentre una parte guidata da August Willich e Karl Schapper propone un'immediata ripresa dell'attività rivoluzionaria: per Marx[67], « al posto della considerazione critica, la minoranza ne mette una dogmatica, al posto di una materialistica, ne mette una idealistica. Per essa, invece delle condizioni effettive, diventa ruota motrice della rivoluzione la nuda volontà. Mentre noi diciamo agli operai: voi dovete attraversare 15, 20, 50 anni di guerre civili e di lotte popolari non soltanto per cambiare la situazione ma anche per cambiare voi stessi e per rendervi capaci del dominio politico, voi dite invece: noi dobbiamo giungere subito al potere, oppure possiamo andare a dormire! Mentre noi richiamiamo in particolare gli operai tedeschi sul fatto che il proletariato tedesco non è ancora sviluppato, voi adulate nel modo più goffo il sentimento nazionale e i pregiudizi di casta dell'artigiano tedesco, cosa che comunque dà più popolarità. » Il 15 settembre 1850 avviene la scissione: gli aderenti alla frazione marxista, spostata a Colonia, vengono processati dalla magistratura prussiana e, nel novembre 1852, i suoi membri sono condannati ad alcuni anni di carcere. Il 17 novembre 1852, su proposta di Marx, la Lega dei Comunisti è sciolta. Ancora nel 1852 scrive Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in cui analizza il colpo di stato bonapartista del 2 dicembre 1851.A Londra Marx e la sua famiglia vivono dei magri proventi della sua attività di pubblicista. Riferisce nel 1853 un informatore della polizia prussiana al suo superiore: « Marx vive in uno dei peggiori quartieri di Londra, e quindi uno dei più economici. Occupa due stanze...[un soggiorno e una camera da letto]. Non si vede in tutto l'ambiente un solo mobile pulito o in buono stato...nel centro del soggiorno c'è un grande tavolo di foggia antiquata, ricoperto da una incerata, su cui sono sparpagliati manoscritti, libri e giornali, assieme ai giocattoli dei bambini, oggeti da lavoro della moglie, tazze da tè sbocconcellate, cucchiai, forchette e coltelli sporchi...un calamaio...pipe di terracotta...cenere di tabacco [...] c'è una sedia con solo tre gambe, ce n'è un'altra che per caso è intatta sulla quale i bambini giocano a far da mangiare. Questa viene gentilmente offerta all'ospite ma i resti [del gioco] dei bambini non vengono tolti e ci si siede a rischio di sporcarsi i pantaloni. Ma nulla di tutto ciò causa il minimo imbarazzo a Marx o a sua moglie. Si è accolti nel modo più cordiale, vi si offre cortesemente la pipa, il tabacco e qualsiasi altra cosa disponibile. In ogni caso la conversazione intelligente e gradevole compensa in parte le deficienze della casa e rende sopportabile il disagio...[68] » In questa situazione la moglie che lo ama profondamente e crede nelle sue idee e nel suo progetto socio-politico, tiene un comportamento eroico, senza mai rimproveragli nulla ed anzi sostenendolo. Gli muoiono in un breve arco di tempo, per denutrizione, i figli Heinrich Guido (1849-1850) e Franziska (1851-1852) e, per tubercolosi, Edgar (1847-1855); in quest'occasione scrive a Engels: «La casa è del tutto desolata e vuota dopo la morte del caro bambino che ne era l'anima. Non si può dire come il bambino ci manchi a ogni istante [...] Mi sento spezzato [...] Tra tutte le pene terribili che ho passato in questi giorni, il pensiero di te e della tua amicizia, e la speranza che noi abbiamo ancora da fare insieme al mondo qualche cosa di intelligente, mi hanno tenuto su». Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari in Europa ritiene che terra della rivoluzione possa esser l'Inghilterra perché industrialmente più sviluppata. In quel periodo l'introduzione dellemacchine a vapore nella produzione dà ulteriore slancio all'industria, aumentano i guadagni, l'orario lavorativo degli operai migliora leggermente così come i loro salari. In questa situazione Marx riprende lo studio dell'economia politica per definire un metodo corretto per l'analisi dell'economia. Frequenta quasi giornalmente la biblioteca del British Museumraccogliendo una grande quantità di dati. Per la critica dell'economia politica [modifica] I risultati saranno degli appunti riuniti sotto il titolo Grundrisse e Per la critica dell'economia politica, pubblicata nel 1859, affrontando l'analisi della merce e del denaro in un'introduzione all'opera stessa teorizzando la creazione del valore di scambio della merce mediante la quantità di lavoro sociale immesso in essa. La prefazione a quest'opera è un compendio del materialismo storico[69]: « Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale a determinare la loro coscienza [...]. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) entro i quali queste forze fino ad allora si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono nelle loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. » Marx richiama la necessità di distinguere tra lo sconvolgimento delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme ideologiche - giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche - attraverso le quali gli uomini prendono coscienza e combattono questi conflitti: «Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di sé stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione». « Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; i nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione [...]. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana. »A differenza degli economisti classici, Marx ritiene che l'oggetto dell'economia politica non siano gli individui che producono isolatamente bensì in società. L'indagine deve quindi partire dalla realtà, dal concreto. Esso, per quanto caotico, è il punto di partenza per poter fare delle astrazioni per poter creare le categorie dell'analisi economica (per es. lavoro astratto, strumento di produzione, soggetto del lavoro ecc.). Tali categorie, cioè concetti astratti, possono dar vita a legami che sono semplici leggi logiche generali, difficilmente, dato il carattere storico possono dar vita a leggi naturali che richiederebbero l'assolutizzazione ed eternizzazione di certi rapporti (nel caso specifico la società borghese). Tramite quest'analisi Marx ci ricorda come persino l'astratto, come le categorie, ha radici nella realtà storica e con essa muta al cambiare delle condizioni. Il procedimento corretto nell'analisi dell'economia politica comporterà quindi la sostituzione, a queste categorie astratte, dei dati storici specifici di ogni società. Marx non si ferma alla semplice astrazione, così come gli economisti classici, ma riporta l'astratto al concreto concludendo la vera dialettica: concreto (caos) - astratto (categorie) - concreto (relazioni, ordine). Il concreto raggiunto non sarà più caotico come quello iniziale ma una totalità di relazioni correttamente individuate. Marx riporta ancora una volta la dialettica hegeliana a poggiare sui piedi e non sulla testa: «il mio metodo dialettico non solo è diverso da quello hegeliano, ma ne sta all'opposto. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli sotto il nome di Idea trasforma in soggetto indipendente, è il demiurgo della realtà, mentre la realtà è solo il suo fenomeno esteriore. Invece, per me il fattore ideale è solamente il fattore materiale trasferito e tradotto nella mente degli uomini [...] la mistificazione cui è soggetta la dialettica nelle mani di Hegel non impedisce che egli sia stato il primo ad averne esposto distesamente e consapevolmente le forme generali di movimento. In lui è piantata sulla testa. Occorre rovesciarla per trovare il nocciolo razionale dentro il rivestimento mistico» La dialettica, concepita concretamente, rappresentando la nascita, lo sviluppo, la decadenza e la morte degli organismi sociali, «è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi portavoce dottrinari, perché nella componente positiva della realtà delle cose include nello stesso tempo anche la comprensione della negazione di essa e del suo inesorabile declino, perché considera ogni forma divenuta nel fluire del movimento, perciò anche dal suo lato transitorio, perché non si lascia impaurire da nulla ed è critica e rivoluzionaria nel suo intimo. Quello che più vivamente fa avvertire al pratico borghese il movimento contraddittorio della società capitalistica, sono le incerte vicende del ciclo periodico che ha percorso la moderna industria e il loro termine ultimo, la crisi generale»[70].La crisi economica che investe tutto il mondo nel 1857 segna una forte ascesa del movimento operaio che fece sentire anche la necessità di una unità politica internazionale. Il 22 luglio 1864 si svolge a Londra una grande manifestazione in solidarietà con la Poloniainsorta contro la dominazione russa: i dirigenti operai inglesi e francesi si accordano per la costituzione di un'associazione. Il 28 settembre 1864 nella St. Martin's Hall di Londra si svolge la seduta inaugurale del congresso costitutivo dell'Associazione internazionale dei lavoratori con la partecipazione di rappresentanti inglesi, francesi, italiani, polacchi, irlandesi, svizzeri e tedeschi, tra i quali anche Marx. Viene stabilito che il congresso elegga annualmente il Consiglio generale, con sede a Londra, il quale a sua volta elegge i segretari delle sezioni nazionali. Tra gli stessi fondatori dell'Associazione non vi era un pieno accordo di posizioni teoriche e politiche: vi erano confluiti comunisti, socialisti, socialisti utopisti, anarchici, repubblicani[71]. Marx riuscì a presentare, il 1º novembre 1864, un Indirizzo inaugurale dello statuto dell'Associazione, in modo da raccogliere l'adesione di tutte le correnti e il documento fu approvato all'unanimità. Marx vi sottolinea l'esperienza positiva del movimento operaio, con la conquista della giornata lavorativa di 10 ore in Inghilterra, lo sviluppo delsindacalismo, e delle associazioni di produzione operaia ma anche la necessità della conquista del potere politico. Il 26 giugno 1865 presenta al Consiglio generale il saggio Salario, prezzo e profitto in cui dimostra la falsità della tesi del rapporto tra aumenti salariali e inflazione. Presto Marx, membro del Consiglio e segretario per la Germania, l'Olanda e più tardi anche per la Russia, deve lottare contro l'influsso dei mazziniani, degli oweniani e soprattutto dei proudhoniani, favorevoli alla cooperazione ma contrari alle lotte sindacali e politiche: nel I Congresso dell'Associazione, tenuto a Ginevra il 3 settembre 1866, vengono approvate le sue Istruzioni, nelle quali sostiene che il movimento cooperativo operaio non è in grado di mutare la situazione sociale del proletariato e condanna le tesi proudhoniane contrarie al lavoro e alla vita sociale delle donne. Le polemiche tra la maggioranza dell'Associazione e i seguaci di Proudhon si prolungarono fino al Congresso di Bruxelles, tenuto dal 6 al 13 settembre 1868, al termine del quale l'ala destra dei prudhoniani, capeggiata da Henry Louis Tolain, preferì lasciare l'Associazione, mentre quella di sinistra di Eugène Varlin si avvicinò alle posizioni marxiste. In quel congresso fu altresì stabilito di consigliare a tutti gli associati la lettura e la diffusione de Il Capitale di Marx, il cui primo libro era stato pubblicato l'anno precedente[72]. Il Capitale [modifica] Per approfondire, vedi la voce Il Capitale. La necessità di analizzare il modo di produzione capitalistico in base alle categorie da lui individuate porterà Marx alla stesura nel 1867 de Il Capitale, pubblicato dall'editore Meissner di Amburgo. Prevede, e usciranno postumi a cura di Engels nel 1885, un secondo libro sul processo di circolazione del capitale, nel 1895 un terzo libro sulla formazione del processo complessivo e, dal 1905 al 1910, a cura di Karl Kautsky, dirigente e principale teorico del Partito Socialdemocratico Tedesco, un quarto libro sulla storia delle teorie economiche, intitolato anche Teorie sul plusvalore.L'economista russo Ilarion Kaufman nel 1872 recensisce il I volume del Capitale descrivendone il metodo di analisi: «Stando alla forma esteriore dell'esposizione, Marx appare come il più grande filosofo idealista [...] ma in effetti è infinitamente più realista di tutti i suoi predecessori nel campo della critica economica [...] per Marx, solo una cosa è importante: trovare la legge dei fenomeni che è volto a indagare. E per lui è importante non solo la legge che li governa [...] è importante soprattutto la legge del loro cambiamento, del loro svolgimento da una forma all'altra [...] appena scoperta questa legge, indaga nei dettagli le conseguenze con cui la legge si manifesta nella vita sociale [...]. In seguito a ciò, Marx si sforza solo a una cosa: di dimostrare [...] la necessità di determinati rapporti sociali e di constatare [...] i fatti che gli occorrono come punti di partenza o come punti di appoggio. A questo scopo è sufficiente provare sia la necessità dell'ordinamento attuale che la necessità di un diverso ordinamento in cui il primo deve trapassare, essendo indifferente che gli uomini ne siano o meno consapevoli. Marx considera il movimento della società come un processo di storia naturale governato da leggi che non dipendono soltanto dalla volontà, dalla coscienza e dall'intenzione degli uomini ma, al contrario, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni [...] Se l'elemento cosciente ha nella storia della civiltà un posto così subordinato, è evidente che la critica della civiltà meno d'ogni altra cosa potrà prendere a fondamento una qualunque forma o risultato della coscienza [...] La critica si restringerà alla comparazione di un fatto non con l'idea, ma con un altro fatto. È importante che tutti e due i fatti [...] rappresentino veramente diversi momenti di sviluppo l'uno di fronte all'altro e soprattutto che sia indagata la serie degli ordinamenti, la successione e il legame in cui si manifestano i gradi di sviluppo. Si potrebbe obiettare che le leggi generali dell'economia siano uniche e medesime, sia che si riferiscano al presente che al passato. Marx nega proprio questo. Per lui queste leggi astratte non esistono [...] ogni periodo storico ha le sue proprie leggi [...] appena la vita economica [...] è passata da un determinato stadio di sviluppo a un altro, comincia a essere retta da leggi diverse [...] I rapporti e le leggi che regolano i gradi di sviluppo cambiano con la differenza di sviluppo delle forze produttive [...] Il valore scientifico di questa indagine sta nella spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo, morte di un organismo sociale e la sua sostituzione con un altro, superiore»[73].La merce, forma elementare della ricchezza nella società capitalistica, ha innanzi tutto un valore d'uso, un valore intrinseco che consente di soddisfare un bisogno e che si realizza soltanto nel consumo di essa. Ma ogni merce è depositaria anche di un altro valore che permette il suo scambio con certe quantità di altre merci; il valore di scambio. Per esempio, si può scambiare mezza tonnellata di ferro con 13 chili di grano o, in generale, X quantità della merce A con Y quantità di merce B e Z di merce C ecc. Dunque una determinata merce ha insieme un valore d'uso, in relazione alla sua qualità, e un valore di scambio, in relazione alla sua quantità; il primo valutato in funzione del consumo, il secondo in funzione dello scambio. Ma perché X merce A è scambiabile con Y merce B ecc.? Devono avere in comune qualcosa, della stessa grandezza, che non sia né A né B né C, ecc. Per Marx, il fattore comune è la quantità di lavoro impiegato per produrle, lavoro inteso indipendentemente dalla sua qualità specifica - di sartoria, di meccanica, di edilizia ecc. - cioè lavoro come dispendio di energia, il lavoro astratto[74]. Il valore di scambio di una merce è allora determinato dalla quantità di lavoro astratto racchiuso in essa e la quantità di lavoro è misurabile perdurata temporale. Cioè il tempo di lavoro necessario in media, socialmente necessario, per produrre una certa merce. Un bene, una merce, ha tale valore perché in esso è oggettivato del lavoro umano. Nel mercato gli scambi delle merci si rifanno ad una merce che funge da equivalente generale, questa merce è il denaro e può esser equivalente di ogni altra. Il denaro consente di stabilire, tramite la legge della domanda e dell'offerta, il prezzo di un bene sul mercato. In una società mercantile la circolazione denaro-merci è M-D-M, vi è la vendita della merce dalla quale si ricava del denaro da reinvestire per l'acquisto di altra merce. Nella società capitalista la conversione di merce in denaro e di denaro in merce non è finalizzata al consumo della merce stessa, ma all'aumento di denaro, ossia al profitto o plusvalore. In questo modo si realizza il processo di scambio D - M - D', in cui D'>D. Si ha un incremento di denaro d = D'- D. La merce che consente di ottenere un profitto, cioè l'aumento di denaro, non è da ricercarsi nel circuito di circolazione ma in quello della produzione. Infatti nessuno acquisterebbe mai una merce il cui prezzo sia superiore al suo valore di scambio. Per Marx la merce dotata della capacità produttiva e dalla quale possa estrarsi profitto, cioè un guadagno rispetto a quanto speso per acquistarlo, è la forza-lavoro. La forza-lavoro è venduta, per sopravvivere, dagli individui che non possiedono altro che loro stessi sul libero mercato, ed è acquistata dal capitalista, il quale detiene come sua proprietà i mezzi di produzione, corrispondendo un salario. Come fa il capitalista a ricavare un profitto? Il capitalista acquista materie prime, macchinari, combustibile ecc., denaro investito nella forma di "capitale costante" ("C"), però acquista anche forza-lavoro, che è una merce, nella forma del salario. Come ogni altra merce, la forza-lavoro, ha un valore di scambio, quindi vale il tempo medio di lavoro necessario per produrla. Il valore della forza lavoro non è calcolato al suo rendimento ma è calcolato sul costo necessario perché possa riprodursi. Il pluslavoro può generare profitto o plusvalore se il capitalista corrisponde un salario che equivale ad una sola parte del tempo impiegato dall'operaio in produzione, che quindi non equivale al suo rendimento effettivo. Il capitalista corrisponderà all'operaio solo quanto è necessario alla sua sopravvivenza (cioè alla riproduzione di forza-lavoro). Se la parte di lavoro necessaria all'operaio per la propria sopravvivenza sono 6 ore, le altre ore di lavoro di quella giornata non gli sono pagate, quindi sono pluslavoro (gratuito) che genera plusvalore o profitto di cui il capitalista si appropria "legittimamente", in quanto egli ha acquistato, con regolare contratto, la merce forza-lavoro per il suo valore di scambio. Ad es: il capitalista assume l'operaio per 10 ore ma a lui ne retribuisce solo 6, che è il costo che sostiene tramite il salario perché sopravviva. E la merce prodotta dall'operaio contiene il valore della materia prima e il valore corrispondente all'usura dei mezzi di produzione, C, il valore del lavoro retribuito V e il plusvalore corrispondente a quattro ore non retribuite, PV. Se nella circolazione avverrà lo scambio delle merci prodotte in quel giorno con denaro, il capitalista avrà recuperato il capitale investito (C + V) e avrà realizzato il plusvalore PV[75]. La caduta tendenziale del saggio di profitto [modifica] Per approfondire, vedi la voce Teoria marxiana del valore. Il capitalista può consumare il plusvalore nel reddito (riproduzione semplice) o reinvestirlo (riproduzione allargata) ad esempio nell'acquisto di macchine per incrementare la produttività. La concorrenza spinge il capitalista a investire nelle macchine, "capitale costante", e a ridurre i salari, cioè il "capitale variabile". L'introduzione delle macchine in sostituzione agli operai creano un immiserimento crescente tra gli operai ed una forte disoccupazione (che Marx definisce esercito industriale di riserva) e quindi un aumento di forza-lavoro sul mercato che abbassa ulteriormente i salari. Questa per Marx è la legge tendenziale di caduta del saggio di profitto che porterà una crisi. La società capitalista genera da sé la propria negazione.È possibile produrre maggior quantità di plusvalore aumentando la giornata lavorativa e ottenendo così ulteriore pluslavoro quanto sono le ore lavorate in più. Ma tale aumento ha naturalmente un limite. Se non è possibile ricavare più plusvalore assoluto si può ottenereplusvalore relativo retribuendo il lavoro dell'operaio non per sei ore ma, per esempio, per cinque, non solo o non tanto con un brutale taglio del salario ma diminuendo il valore di scambio della forza-lavoro, cioè diminuendo i prezzi dei mezzi di sussistenza. La diminuzione del prezzo delle merci comporta la diminuzione del tempo necessario di lavoro perché la forza-lavoro si riproduca; e la riduzione di tale tempo necessario comporta la diminuzione del salario. Pertanto il valore dell'ora di lavoro non più necessaria all'operaio diventa un'ora in più di pluslavoro e perciò di plusvalore relativo. Si può diminuire il prezzo delle merci aumentando la produttività tanto con una maggiore divisione del lavoro che permette agli operai lavorazioni più semplici e perciò più rapide tanto, contemporaneamente, utilizzando macchinari più sofisticati e perciò più efficaci che permettano al lavoratore di produrre nel medesimo tempo una maggiore quantità di merci. In ogni singola merce viene così incamerata una minore quantità tanto di "capitale costante" ("C") che di quello "variabile" ("V") e potrà andare sul mercato a un prezzo inferiore: il costo della vita dell'operaio diminuisce e diminuendo il salario aumenta il plusvalore relativo. Ma la rivoluzione tecnologica comporta una perdita per il capitalista che sostituisce le vecchie macchine senza averle pienamente utilizzate, e diminuisce l'utilizzo della forza-lavoro, diminuendo il tasso di plusvalore PV / V e mutando la composizione del capitale investito; con l'aumento del "capitale costante" e la diminuzione di quello variabile, che produce plusvalore ("PV"), il saggio di profitto P = PV / (C + V) diminuisce[76]. Il problema dell'arte [modifica] Marx aveva preparato un'altra introduzione all'opera che soppresse e, lasciata frammentaria, fu pubblicata solo nel 1903. In essa affronta marginalmente, tra l'altro, anche il problema della produzione artistica come sovrastruttura che permane nella nostra coscienza anche dopo radicali trasformazioni della struttura economica e sociale. «Per l'arte è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale, con l'ossatura, per così dire, della sua organizzazione [...] . Prendiamo, ad es., il rapporto dell'arte greca e poi di Shakespeare con l'età presente. È noto che la mitologia greca non fu solo l'arsenale ma anche il terreno nutritivo dell'arte greca. È possibile la concezione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia e dell'arte greca con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e il telegrafo? Che ne è di Vulcano di fronte alle acciaierie Roberts and Co., di Giove di fronte al parafulmine, di Ermes di fronte al Crédit mobilier? Ogni mitologia vince, domina e plasma le forze della natura nell'immaginazione e mediante l'immaginazione ma svanisce quando si giunge al dominio effettivo su quelle forze [...] l'arte greca presuppone la mitologia greca, cioè la natura e le forze sociali stesse già elaborate dalla fantasia popolare in modo inconsapevolmente artistico [...] non una qualunque mitologia [...] ma una mitologia [...]. Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco siano legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili [...]. Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile. Ma non si compiace forse dell'ingenuità del fanciullo e non deve egli stesso aspirare a riprodurne, a un livello più alto, le verità? Nella natura infantile, il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale? E perché mai la fanciullezza storica dell'umanità, nel momento più bello del suo sviluppo, non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna? Vi sono fanciulli rozzi e fanciulli saputi come vecchietti. Molti dei popoli antichi appartengono a questa categoria. I greci erano fanciulli normali. Il fascino che la loro arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla evoluto in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato, inscindibilmente connesso col fatto che le immature condizioni sociali in cui sorse e solo poteva sorgere, non potranno mai più ritornare»[77]. Il riconosciuto sviluppo non parallelo di struttura e sovrastruttura è una prova che non vi è, fra di esse, una ferrea e immediata relazione deterministica. Engels ribadirà dopo la morte di Marx, a seguito di numerosi dibattiti nel movimento socialista, che «il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l'unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda»[78]. La vecchiaia [modifica] All'inizio degli anni sessanta guadagna due sterline ad articolo collaborando con il quotidiano americano New York Tribune, del quale diverrà presto l'unico corrispondente dall'Europa, pubblicando anche articoli sulle vicende politiche italiane, e fa domanda di assunzione nelle ferrovie inglesi che non viene però accettata a causa o a pretesto della sua grafia poco leggibile. Giunge in soccorso della famiglia una piccola rendita lasciatagli dalla madre deceduta nel 1863, ma l'eredità della madre non basta per vivere, così l'amicoEngels - che fu sempre economicamente generoso nei suoi confronti - vende la propria partecipazione in una fabbrica di Manchester e gli corrisponde una rendita in modo che la famiglia possa vivere in modo decoroso.Nell'estate del 1870 scoppia la guerra tra Germania e Francia: il Consiglio Generale dell'Internazionale pubblica un manifesto, scritto da Marx, in cui si afferma che la Germania combatte una guerra difensiva e si lodano gli operai francesi per essersi dichiarati contro la guerra e contro Napoleone III. Dopo la vittoria lampo dell'esercito prussiano, e la proclamazione della Repubblica francese, il 9 settembrel'Internazionale pubblica un altro manifesto, ancora redatto da Marx, in cui si denunciano le mire espansionistiche di Bismarck. Marx scrive all'internazionalista Friedrich Adolph Sorge che « quegli asini dei prussiani non si accorgono che l'attuale guerra conduce a una guerra tra la Germania e la Russia....questa seconda guerra sarà la levatrice dell'inevitabile rivoluzione sociale russa. » Cerca di scoraggiare gli operai parigini da un'avventura rivoluzionaria prematura: « Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia....Migliorino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per lavorare alla loro organizzazione di classe...dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica. » Ma il proletariato parigino, diretto da esponenti radicali, blanquisti e anarchici, insorge proclamando il 18 marzo 1871 la Comune rivoluzionaria; Marx non crede nel suo successo ma si schiera al suo fianco. Nel maggio l'esercito francese, riorganizzato e armato dai tedeschi, soffoca l'insurrezione: quarantamila comunardi vengono massacrati o fucilati. Ne La guerra civile in Francia Marx scrive che la Comune «è stata un governo della classe operaia, risultato della lotta delle classi produttrici contro le classi possidenti, la forma politica finalmente scoperta con la quale si sarebbe potuto lavorare all'emancipazione economica del lavoro [...] Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l'araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti»[79].Il 17 settembre 1871 si apre a Londra la Conferenza della Prima Internazionale nella quale Marx presenta una risoluzione in cui sostiene che il movimento economico della classe operaia deve essere strettamente legato all'attività politica. Avversario dell'azione politica e sindacale, l'anarchico Bakunin punta invece sull'azione spontanea del sottoproletariato urbano e dei contadini poveri. Accusa il Consiglio Generale di autoritarismo, di aver attentato agli statuti generali dell'Associazione e di rendere l'Internazionale un'organizzazione gerarchica. Marx, sempre attivo, lesse lo Stato e anarchia del suo rivale Bakunin, e vi scrisse dei commenti. Eccone uno stralcio[80]: Bakunin: «Il suffragio universale tramite il quale il popolo intero elegge i suoi rappresentanti e i governanti dello Stato - questa è l'ultima parola dei marxisti e della scuola democratica. Tutte queste sono menzogne che nascondono il dispotismo di una minoranza che detiene il governo, menzogne tanto più pericolose in quanto questa minoranza si presenta come espressione della cosiddetta volontà popolare» Marx: «Con la collettivizzazione della proprietà, la cosiddetta volontà popolare scompare per lasciare spazio alla volontà reale dell'ente cooperativo» [*]Bakunin: «Risultato: il dominio esercitato sulla grande maggioranza del popolo da parte di una minoranza di privilegiati. Ma, dicono i marxisti, questa minoranza sarà costituita da lavoratori. Si, certo, ma da ex lavoratori che, una volta diventati rappresentanti o governanti del popolo, cessano di essere lavoratori» Marx: «Non più di quanto un industriale oggi cessi di essere un capitalista quando diventa membro del consiglio comunale» [*]Bakunin: «E dall'alto dei vertici dello Stato cominciano a guardare con disprezzo il mondo comune dei lavoratori. Da quel punto in poi non rappresentano più il popolo, ma solo se stessi e le proprie pretese di governare il popolo. Chi mette in dubbio ciò dimostra di non conoscere per niente la natura umana» Marx: «Se solo il signor Bakunin avesse la minima familiarità anche solo con la posizione di un dirigente di una cooperativa di lavoratori, butterebbe alle ortiche tutti i suoi incubi sull'autorità»[81]. In un nuovo congresso tenuto il 2 settembre 1872 a L'Aja viene ribadita a maggioranza la risoluzione sull'azione politica approvata dal congresso di Londra e decisa l'espulsione della frazione anarchica. Il 15 luglio 1876 la conferenza di Filadelfia dichiarerà lo scioglimento della Prima Internazionale.Nel 1875 scrive la Critica del Programma di Gotha ove emenda molte proposizioni del programma del Partito operaio tedesco redatte nella città di Gotha. Vi sono in essa alcuni passaggi che prospettano una futura società comunista: «I vari Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali». Si domanda quindi: «quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente [...] ] Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato [...][82]. In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e manuale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni! [...] Il modo di produzione capitalistico poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l'odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall'attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l'abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione»[83].Prima della nascita della società comunista e la scomparsa della proprietà privata e quindi di tutte le classi nel nuovo stato uscito dalla rivoluzione proletaria permarrà la classe borghese sconfitta. Ad evitare ogni tentativo di una controrivoluzione borghese occorrerà passare ad una fase immediatamente postrivoluzionaria dove si instauri il potere dittatoriale del proletariato. La dittatura del proletariato è una teoria concepita da Marx ed Engels per la prima volta nel 1852, nella lettera a Weydemeyer[84], e nel1875, nella Critica del Programma di Gotha[85], per riferirsi alla situazione sociale e politica che si sarebbe instaurata immediatamente dopo la rivoluzione proletaria. Il potere unico del proletariato rappresenta quindi una fase di transizione in cui il potere politico è detenuto dai lavoratori, rappresentati dall'unico partito comunista, che procederà alla definitiva abolizione della proprietà privata, per la costruzione finale di una società senza classi e senza Stato (comunismo). Nonostante l'apparente affinità col progetto politico dell'anarchia di Bakunin questo della dittatura del proletariato e quindi dello Stato unico detentore della proprietà fu un motivo, tra gli altri[86], del contrasto tra Marx e il leader anarchico: « Non sono comunista perché il comunismo concentra e annega nelle mani dello Stato tutta la forza della società, perché conduce necessariamente alla centralizzazione della proprietà nelle mani dello Stato, mentre io voglio l'abolizione dello Stato, la radicale estirpazione di quel principio dell'autorità e della tutela statale che finora, col pretesto di moralizzare e incivilire gli uomini, li ha asserviti, oppressi, sfruttati e corrotti. Voglio l'organizzazione della società e della proprietà collettiva o sociale dal basso all'alto, mediante libera associazione, e non dall'alto al basso mediante un'autorità qualsivoglia.[87] »Il 2 dicembre 1881 muore la moglie Jenny; così la ricorda il socialista tedesco Stephan Born nelle sue memorie: «Marx amava la moglie, ed ella condivideva il suo amore. Ho conosciuto raramente unioni altrettanto felici, in cui la gioia, la sofferenza (che non fu loro risparmiata) e il dolore fossero condivisi con una tale certezza di reciproco possesso. Ed ho raramente incontrato una donna che fosse più armoniosa della signora Marx sia nel fisico sia per le qualità della mente e del cuore, e che, sin da un primo incontro, facesse una così favorevole impressione. Era bionda; i suoi figli, allora ancora piccoli, avevano i capelli e gli occhi neri come il padre». Marx non si riprenderà più da questa grave perdita; malato di bronchite cronica, a gennaio perde anche la sua primogenita Jenny (1844 - 1883); gli restano le figlie Laura (1845 - 1911), moglie del socialista francese Paul Lafargue, ed Eleanor (1855 - 1898), sposata con il socialista inglese Edward Aveling. Laura ed Eleanor moriranno entrambe suicide. Alle già sue precarie condizioni di salute si aggiunge un'ulcera polmonare e il 14 marzo 1883 Marx muore. Viene sepolto tre giorni dopo nel cimitero londinese di Highgate, accanto alle spoglie della moglie; il suo amico Engels legge l'orazione funebre[88]: « Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra [...] Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana [...] Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti [...] Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria [...] Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. » « Marx era perciò l'uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero; i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europae in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale. Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera! » La teoria soggettiva del valore di marginalisti e neoclassici [modifica] Poco dopo l'uscita del Libro I de Il Capitale, a partire dai contributi indipendenti di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras, lateoria del valore-lavoro degli economisti classici, che aveva costituito la base della teoria economica di Marx, venne progressivamente sostituita dalla teoria soggettiva del valore, che riposa sul concetto di utilità marginale[89]. Secondo tale teoria, che è stato il perno del marginalismo e rimane, sebbene con alcuni aggiustamenti, il nucleo centrale dell'economia neoclassica a tutt'oggi dominante, il fondamento del valore non va ricercato nella quantità di lavoro socialmente necessario alla produzione dei beni, ma nell'incremento all'utilità individuale che l'incremento del consumo di questi può apportare al margine. Il prezzo dei beni deriva dalla valutazione soggettiva dei consumatori circa l'utilità relativa degli stessi rapportata alla loro scarsità relativa. Infatti, data la generale assunzione di utilità marginale decrescente, cioè di una diminuzione dell'incremento dell'utilità individuale generato da un incremento di un'unità nel consumo al crescere del livello assoluto di consumo, il valore dei beni viene determinato dal rapporto tra bisogni individuali e disponibilità complessive dei beni (e nella versione mengeriana - che apre la strada alla scuola austriaca dell'economia - il valore è ricondotto in particolare al puro giudizio soggettivo dei singoli, ben al di là di ogni pretesa di definire bisogni e disponibilità complessivi). Così, ad esempio, riprendendo il celebre paradosso dell'acqua e del diamante contenuto nella Ricchezza delle nazioni (1776) di Adam Smith, per i marginalisti il motivo per cui il valore dei diamanti è immensamente maggiore di quello dell'acqua è che, date le disponibilità relative di acqua e diamanti, l'utilità che apporterebbe un diamante in più sarebbe molto maggiore di quella di un bicchiere d'acqua in più. Se un uomo si trovasse in un deserto, per il primo bicchiere d'acqua sarebbe disposto a pagare sicuramente molto più che per un diamante, ma non è questa la situazione normale delle persone. I marginalisti dimostrano che in equilibrio i prezzi dei beni devono essere tali da garantire l'uguaglianza delle loro utilità marginali ponderate, cioè del rapporto tra utilità marginale e prezzo del bene[90]. Data anche l'alta formalizzazione matematica che permettevano, queste teorie divennero presto quelle dominanti, con esiti dirompenti per la teoria marxiana. Cade la teoria del plusvalore: non essendo più il lavoro considerato la fonte del valore, il profitto non può derivare dal plusvalore, per il semplice fatto che non esiste alcun plusvalore, cioè valore che il lavoro attribuisce alla merce, ma che il lavoratore non percepisce. Cade anche la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: all'aumento della meccanizzazione, con relativo aumento del rapporto tra capitale costante e monte salari, non fa seguito alcuna diminuzione del profitto realizzabile, perché non è la quantità di "lavoro vivo" impiegata nel sistema a determinare il profitto realizzabile. L'idealismo di Gentile [modifica] Per l'idealista Giovanni Gentile, il marxismo è un'errata filosofia della storia derivata da Hegel, costruita sostituendo la Materia - la struttura economica - allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà che comprende la materia come momento del suo sviluppo. Avendo scambiato il relativo con l'assoluto, Marx finisce con l'attribuire a un meromomento la funzione dell'assoluto - che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori - rendendo così determinato a priori l'empirico, la struttura economica. Se poi Marx a ragione, nelle Tesi su Feuerbach, critica il materialismo volgare che concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come ricettore dell'essenza oggetto, per Gentile Marx a torto considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva. Il filosofo siciliano, fondatore dell'attualismo, teorizza essere l'atto del pensiero a porre l'oggetto, e quindi a crearlo [91]. Contraddizione fra teoria "anarchica" e "socialista" [modifica] Il giurista austriaco Hans Kelsen ha ritenuto di rilevare una contraddizione presente all'interno del pensiero marxista: quest'ultimo infatti, essendo imperniato sull'antitesi tra libertà eStato, da un lato presentava se stesso come una dottrina anarchica, capace di emancipare l'umanità da ogni genere di costrizione; dall'altro però esso aveva come obiettivo primario anche la socializzazione dei mezzi di produzione, al fine di arginare l'anarchia del liberismo capitalista, e ricorrendo pertanto ad un'organizzazione rigidamente pianificata, centralizzata, e "cosciente". Kelsen vede in questo punto decisivo una fatale confusione che intorbida il sistema marx-engeliano: si tratta della contraddizione tra la "teoriaeconomica" e la "teoria politica", la quale rende comprensibile il fatto che «gli uni considerino il marxismo un socialismo di Stato, gli altri un anarchismo», e che «tutta la letteratura marxista, su questo problema decisivo, dimostri un'oscurità e un'ambiguità che colpiscono»[92]. Secondo Kelsen, cioè, pianificazione dell'economia e soppressione dello Stato sono concetti antitetici. Ad esempio, sulla base di quanto emerge dal Manifesto, nell'ottica della rivoluzione comunista il proletariato adopererebbe il suo dominio politico per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato. Ma proprio nel momento in cui lo Stato, assumendo sotto il suo controllo tutta l'economia, estende all'infinito i suoi poteri, esso secondo Marx deve cessare d'esistere perché allora dello Stato non ci sarà più bisogno. Il conflitto tra la dimensione politica e quella economica per Kelsen non potrebbe essere più evidente; come anche il carattere di utopia e irrealizzabilità della teoria comunista, dovuto al fatto che Marx non abbia dato disposizioni su come la società comunista dovesse essere organizzata una volta portata a termine la rivoluzione, ritenendo egli che, cessando a quel punto la divisione in classi, sarebbe cessata anche ogni forma di conflitto tra la politica e l'economia, non essendoci più uno Stato che dovesse regolare la vita degli individui, pur vigendo al contempo un sistema di rigida pianificazione economica. Fu per via di un tale paradosso, a cui Marx si illudeva di aver trovato risoluzione, che nel momento effettivo della rivoluzione bolscevica Lenin si vide costretto ad applicare la teoria marxiana nell'unico modo possibile, cioè ripristinando la supremazia della politica sull'economia, al fine di accentrare tutta la produzione in un unico potere, con la conseguenza di una totale distruzione delle libertà civili.[93] Riguardo poi la teoria politica marxiana della democrazia diretta esercitata da tutti i produttori, Kelsen – basandosi sull'esperienza della società sovietica – sostiene che la complessità delle funzioni e l'estensione dei compiti riservati a un'amministrazione pubblica rendono utopistico l'esercizio della democrazia diretta in una società moderna. Qualora poi essa fosse instaurata nei luoghi stessi della produzione, come avvenne nei primi anni della Rivoluzione russa con la creazione dei Soviet, essa porterebbe all'ipertrofia del parlamentarismo e a un grave intralcio della stessa attività produttiva, sino alla creazione di una estesa burocrazia che finirebbe per assumere per sé il potere politico, esercitandolo in modo autoritario[94]. Popper e la falsificabilità delle teorie scientifiche [modifica] Per approfondire, vedi la voce materialismo dialettico. Per l'epistemologo Karl Popper (1902 - 1994), autore nel 1934 della Logica della scoperta scientifica, le teorie scientifiche, che non siano riproducibili in laboratorio, devono contenere in sé la possibilità di renderle falsificabili: il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità o controllabilità. Così, la teoria della relatività diAlbert Einstein - elaborata dal 1905 al 1915 - faceva predizioni che, se non confermate, avrebbero dimostrato l'erroneità della teoria; ma nell'eclisse avvenuta nel 1919 si poté misurare la curvatura della luce di una stella per effetto della gravitazione del Sole, curvatura prevista da Einstein; se l'osservazione avesse dato risultati diversi – o persino se una qualsiasi futura osservazione darà risultati diversi – la teoria di Einstein si sarebbe dimostrata falsa. Nella sua Miseria dello storicismo, del 1944, Popper sostiene che il marxismo, non tanto quello di Marx, il cui pensiero era influenzato dalla dialettica hegeliana e dallo scientismo del positivismo imperante, quanto quello dei suoi epigoni, non abbia validità scientifica perché ipotizza, per induzione derivante dall'osservazione storica del tramonto delle società succedutesi nel tempo - le società tribali, schiavistiche e feudali - che anche il capitalismo subirà la stessa sorte ma la verifica di quest'accadimento, che viene rimandato a un tempo indefinito, non è verificabile e controllabile[95][96]. Senza trascurare che ogni teoria scientifica contiene anche elementi confutabili, in realtà Marx conduceva soprattutto un'analisi socio-politica del «modo capitalistico di produzione» dei suoi tempi che gli rivelava come quel sistema economico fosse destinato a tramontare. Critiche della Chiesa cattolica [modifica] La Chiesa cattolica ha condannato le teorie socialiste – insieme con quelle liberali e illuministiche – con il Sillabo di Pio IX e con l'enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII che, pur accettando implicitamente alcuni tratti dell'analisi economica marxista, quali l'attenzione alla questione operaia, ha elaborato una dottrina sociale in radicale contrapposizione col socialismo marxista[97]. Nel XXI secolo papa Benedetto XVI, nell'enciclica Spe Salvi ha dichiarato: «Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo – di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli», aggiungendo che «Marx ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo»[98]. Critiche di questa natura sarebbero già state formulate al tempo della pubblicazione del I libro de Il Capitale: nella prefazione alla seconda edizione de Il Capitale, infatti, il 24 gennaio 1873, Marx citava ironicamente la Revue Positiviste di Parigi che lo rimproverava di «essermi limitato a una scomposizione puramente critica del dato, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell'avvenire». Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Ferrarista 1707 Inviato 23 Novembre, 2012 preferivo i si...il che è tutto dire Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Mito Ferrari 1035 Inviato 23 Novembre, 2012 preferivo i si...il che è tutto dire dire Verbo Transitivo dire (vai alla coniugazione) esternare ciò che si pensa parlando Non ha forse detto che è tuo padre? Sillabazione dì | re Pronuncia IPA: /'dire/ Etimologia / Derivazione dal latino dicere, dire ma anche indicare, che deriva a sua volta da una radice indoeuropea deik, mostrare, da cui digitus, dito Sinonimi esprimere, pronunciare, comunicare, sostenere, rispondere, esclamare, proclamare (lett.) proferire Termini correlati e dire che, voler dire, tutto dire, non c'è che dire Traduzione Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Ruberekus 12261 Inviato 24 Novembre, 2012 buongiorno Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
SpadaJones 60 Inviato 24 Novembre, 2012 Goodmorning People..! Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Yellow 312 Inviato 24 Novembre, 2012 giorno!!!! carlo pensaci un po' te con questi qua Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Ferrarista 1707 Inviato 24 Novembre, 2012 Ma solo io penso che sia fuori luogo parlare di pene più pesanti per chi commette violenza sulle donne? :unsure: La violenza fa schifo tutta, basta che ci siano pene certe per chiunque commetta atti di violenza :unsure: Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Yellow 312 Inviato 24 Novembre, 2012 ma chi se ne frega di quel che pensi tu Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Ferrarista 1707 Inviato 24 Novembre, 2012 Ma va' a cagare Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
Raikkonen 162 Inviato 24 Novembre, 2012 C'è mai stato un caso di violenza su un uomo? A parte Beyond intendo. Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
The frog 66 Inviato 24 Novembre, 2012 (modificato) Un po' di contegno, please. Regards, The frog C'è mai stato un caso di violenza su un uomo? A parte Beyond intendo. Un mio amico sociologo mi raccontava di una violenza sessuale di due ragazze a scapito di un mormone. Il mormone mori' di attacco cardiaco durante l'atto di violenza. Regards, The frog Modificato 24 Novembre, 2012 da The frog Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
S. Bellof 1345 Inviato 24 Novembre, 2012 (modificato) Che onore averla qui Egregio! Anche Rops ? stato vittima di abusi sessuali da parte di Nicole (nei suoi sogni) Modificato 24 Novembre, 2012 da S. Bellof Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
SpadaJones 60 Inviato 24 Novembre, 2012 C'? mai stato un caso di violenza su un uomo? A parte Beyond intendo. http://ilpartenope.altervista.org/RapinaUnNegozioELaCommessaLoSequestra.html Che sfortunato il tipo......... Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti
The-Flying-Finn 4631 Inviato 24 Novembre, 2012 Sgratcul. Spisa il cul, tempo mul Condividi questo messaggio Link al post Condividi su altri siti