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Spam 4 trist and squared ppl

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siete proprio tristi e quadrati :nope:

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Dito sei un dispensatore di cultura con la W maiuscola :thumbsup:

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Yezez Ladud a tutti

 

e fatte i bravi

 

altrimnuenti

 

alieni

 

taglia

 

palle

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Perché ha abbandonato questo Forum cambiando sponda del fiume.

grazie per l'info Fede! :thumbsup:

 

siete proprio tristi e quadrati :nope:

settima nota musicale

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:assonnato:

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:assonnato:

Non si possono postare sole faccine o sbaglio?

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:assonnato:

mò sò ca**i amari

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Comunque da questa storia mi sa che potrebbe nascere una saga simile a quella di girl power :asd:

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Comunque da questa storia mi sa che potrebbe nascere una saga simile a quella di girl power :asd:

Sarebbe?

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Comunque da questa storia mi sa che potrebbe nascere una saga simile a quella di girl power :asd:

ovvero?

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intanto le previsioni di pioggia a San Paolo son passate dai 25mm a 6.7mm, di questo passo Domenica l'asfalto si squaglierà dal calore :asd:

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Rieccomi tornato dal Ban :dirol:

 

Adesso posso aggiornare la mia lista ignore :dirol:

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Sarebbe?

 

ovvero?

 

Mi sa che gli unici che se lo ricordano qua sono MagicSenna e Hunaudieres...è roba del 2005, quando io leggevo solamente il forum

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Adesso posso aggiornare la mia lista ignore :dirol:

Chiaramente mi dissocio.

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Vorrei rispondere alle argomentazioni di Mito Ferrari

 

Sarò breve e sintetico:

 

 

 

A Stagira, una cittadina della penisola Calcidica, nasce un giovane, figlio del medico personale del re di Macedonia. All’età di diciassette anni, rimasto orfano, si trasferisce ad Atene ed entra nell’Accademia di Platone, dove incomincia a studiare, con pieni risultati, tutto ciò che riguarda il campo del sapere matematico e astronomico. Durante l’assenza del maestro, Aristotele si avvale dell’insegnamento di Eudosso di Cnido.Dopo la morte del maestro, avvenuta nell’anno 347, il filosofo stagirita lascia la scuola di Atene per trasferirsi ad Atarneo. Qui conosce e diviene amico di Teofrasto, col quale, qualche anno dopo, si trasferisce a Mitilene nell’isola di Lesbo, per dedicarsi a ricerche di carattere biologico.Dalla professione del padre, Aristotele riceve probabilmente un incentivo verso l’interesse per le scienze della natura che rimase costante in tutta la sua attività di ricerca.Nel 343 Filippo di Macedonia offre ad Aristotele l’incarico di sovrintendere all’educazione del figlio Alessandro. Nella località di Mieza, Aristotele svolge abilmente il suo compito di precettore del futuro Alessandro Magno, trovandosi così in rapporto diretto tra la nuova monarchia emergente nel mondo greco, e la tradizionale cultura delle città elleniche.Dopo l’assassinio di Filippo di Macedonia, Alessandro sale al trono, trovandosi, in giovane età, a dover fronteggiare una rivolta antimacedone, che porterà alla distruzione della città di Tebe. In questo periodo Aristotele torna ad Atene e fonda una scuola propria, un ginnasio pubblico posto sul colle del Licabetto, chiamato Liceo, poiché aveva sede in un luogo sacro ad Apollo Licio. E’ qui che il maestro tiene le sue lezioni, sia di tipo specialistico sia per un pubblico più vasto. Ai numerosi giovani che frequentano le sue lezioni, Aristotele rende noti i risultati dei propri studi riguardandi diverse discipline quali la fisica, la geometria, l’astronomia, la zoologia, e la politica. Successivamente fu costituita una ricca biblioteca per favorire un’intensa attività di ricerca.Nel 323, l’anno in cui morì Alessandro, si afferma ad Atene il partito antimacedone. Aristotele è costretto a lasciare nuovamente la città e si ritira a Calcide, nell’isola Eubea, dove, nel 322, all’età di 62 anni, muore dopo alcuni mesi di malattia.LE OPERE. Le opere di Aristotele vanno suddivise in due categorie: - scritti acromatici o esoterici (riservato agli allievi) - scritti essoterici (quelli destinati al pubblico)Gli scritti appartenenti alla seconda categoria, ovvero quelli essoterici, sono andati perduti, e ci sono state tramandate solo attraverso testimonianze e citazioni di altri autori.La raccolta delle opere è ripartita in quattro gruppi di argomenti.Opere di carattere logica-linguistico, che sono: l’Interpretazione (breve studio sulle funzioni sistematiche del linguaggio), Categorie, Analitici primi (sul sillogismo), Analitici secondi (sulla dimostrazione), i Topici (sulla dialettica) e Confutazioni sofistiche (lo studio dei metodi contraffatti del confutare).Opere di fisica:Fisica (teoria generale della natura), Il cielo (astronomia e cosmologia), Nascita e morte, Meteorologia, Storia degli animali, Generazione degli animali (genetica ed embrionologia), Parti degli animali (anatomia e fisiologia), Locomozione degli animali, L’anima (brevi trattati di psicofisiologia), Il senso, La memoria. Metafisica (sui problemi filosofici della fisica).Opere morali, politiche, di poetica e di retorica:Etica eudemea, Etica nicomachea, Grande etica, Politica (distinzione delle forme di governo), Poetica (teoria della composizione drammatica), Retorica (studio dell’argomentazione persuasiva), Costituzione degli ateniesi.Vanno aggiunte inoltre delle opera apocrife come la Retorica ad Alessandro.Aristotele concepisce la filosofia non tanto come un esercizio di sapienza, bensì un’attività scientifica articolata in un sistema di discipline distinte, e mirante ad abbracciare tutti gli aspetti della realtà. Essa non serve a trasformare il mondo, ma soltanto a comprenderne l’ordine e a giustificarlo così com’è. Il sapere è inteso come la conoscenza delle cause e i principi.Al di sopra di ogni disciplina, allo stagirita va il merito di aver insegnato la logica, l’arte del ragionare in modo corretto per scoprire la verità delle cose. Prima di lui, quando non si riusciva ad interpretare un fenomeno naturale, si credeva che intervenisse una forza soprannaturale. Egli dimostrò che con il ragionamento si potevano spiegare i fenomeni dell’Universo. Molte sue geniali osservazioni non sono ora più accettabili, in virtù del fatto che egli vi giunse solo con l’aiuto della logica, senza mai sperimentare. Le teorie di Aristotele furono considerate le più autorevoli fino a quando gli strumenti della fisica moderna, come il telescopio, non rilevarono i complessi aspetti dell’Universo.La concezione aristotelica dell’Universo è la seguente: una serie di sfere concentriche, al cui centro si trova la Terra. Al limite esterno si trova una sfera di dimensioni finite contenente le cosiddette stelle fisse. L’universo risulta quindi finito e circoscritto da una specie d’involucro materiale. Il Sole è considerato l’elemento che assicura il rapporto fra i moti astrali e la vita terrestre.Gran parte della riflessione logica consiste nella descrizione delle forme proprie della lingua greca. Dietro di ciò agisce nel filosofo stagirita la consapevolezza dell’esistenza di uno stretto rapporto fra linguaggio e ordine della realtà.L’intero campo del sapere è diviso in tre partizioni: le discipline poietiche, quelle pratiche e quelle teoriche. Le prime sono quelle il cui scopo sta nella produzione di oggetti materiali. Le seconde producono non oggetti, bensì comportamenti umani. Le terze infine, sono caratterizzate da finalità esclusivamente conoscitive.Lo scopo della scienza aristotelica consiste nel penetrare più a fondo possibile nella struttura delle singole cose che popolano l’universo, che variano dagli astri, le specie biologiche, la psiche umana e i diversi regimi sociali.Il filosofo stagirita è considerato il principale teorico della tragedia. Nell’antichità greca questo genere drammatico era definito come mimesi, in altre parole imitazione della natura e della vita. Aristotele attribuisce alla mimesi ulteriore e inconfondibili caratteri. Essa non è tanto imitazione della storia, ma del verisimile. Non si tratta di scrivere cose realmente accadute, bensì quelle che potrebbero accadere. Un altro elemento introdotto è la catarsi: la purificazione che la rappresentazione teatrale esercita nell’animo degli spettatori.La natura invece è intesa come un insieme di realtà dotate di autonomia e di una capacità di generare processi finalizzati alla realizzazione di un’ordine.Il Dio di Aristotele è il frutto di un’esigenza cosmologica, e non di un bisogno di salvezza. E’ la condizione assoluta della vita e del pensiero. Dio inoltre garantisce la stabilità e l’ordine del mondo.Il filosofo stagirita attribuisce una sostanziale importanza anche alla psiche, alla quale dedica un’intera opera: l’Anima. Essa non è altro che una forma di un corpo vivente, la struttura funzionante di un organismo biologico. Corpo e anima stanno nello stesso rapporto di materia e forma, potenza e atto, organo e funzione.La retorica è considerata, per ciò che concerne il linguaggio, la più antica delle discipline.Ancor oggi essa rappresenta la base essenziale per inoltrarsi nel complesso studio delle tecniche di persuasione. Nel trattato della Retorica, l’autore cerca di determinare e spiegare logicamente le leggi che stanno dietro i fenomeni, fornendo all’oratore svariati consigli pratici, come il deteminare negli ascoltatori, gli atteggiamenti e gli stati d’animo più favorevoli.Anche se i primi retori furono Empedocle, Corace, e Tisia dalla Sicilia, Aristotele rappresenta sicuramente il più accreditato approfonditore e insegnate di retorica di tutti i tempi.A tale proposito il filosofo stagirita nella Retorica, afferma che il discorso si compone di tre elementi: colui che parla, ciò di cui si parla e colui al quale si parla, in altre parole l’ascoltatore.I discorsi inoltre vanno distinti in tre generi: deliberativo, giudiziario ed epidittico. Nel primo genere l’oratore consiglia ciò che è utile e sconsiglia ciò che è dannoso. Quello giudiziario consiste nel condurre i giudici nel decidere di difendere il giusto e accusare l’ingiusto. Il discorso epidittico o dimostrativo, infine, ha la funzione di lodare ciò che è bello e biasimare ciò che è brutto.Sia nell’oratoria deliberativa che in quella giudiziaria, la confutazione dell’avversario, può essere attuata per mezzo dei sillogismi, lo studio dei quali è stato introdotto da Aristotele negli Analitici primi. Il sillogismo tipico è quello categorico, costituito da tre proposizioni di cui una (detta conclusione) segue logicamente dalle altre due (premesse). Il nesso sta nel fatto che le tre proposizioni hanno, a due a due, un termine in comune. Il sillogismo, che può essere interpretato come un vero e proprio calcolo logico, in cui la verità delle conclusioni dipende interamente dalla verità delle premesse, costituisce la principale innovazione di Aristotele nel campo della logica.Anche la dialettica aristotelica è impostata da sillogismi. Essa però non è una scienza della dimostrazione, ma della discussione e della confutazione.L’aristotelismo fu ripreso e sviluppato, nelle diverse epoche, da diversi movimenti dottrinali.I successori svilupparono l’opera dello stagirita soprattutto nel campo delle ricerche scinentifiche e storiche. Tra questi ricordiamo Teofrasto di Eresso che coltivò la botanica, Eudemio di Rodi la storia delle scienze, Aristossene di Taranto la tecnica della musica, Stratone di Lamprasco la fisica.Anche gli arabi apprezzarono e diffusero il pensiero aristotelico.Intorno al III secolo d. C., l’aristotelismo incomincia a perdere la sua autonomia speculativa, trovando i continuatori nelle scuole del neoplatonismo, rifondendo in lui il suo messaggio.Nel Medio Evo latino la corrente aristotelica riprende vigore; gli Scolastici vi riscoprono una metafisica dell’essere, intesa come pura espressione del pensiero razionale.Nel 1700 Kant cerca di demolire la metafisica aristotelica, attuandone una fondamentale correzione.Altri illustri esponenti nel campo filosofico, quali Galilei e Copernico, rivisitarono il cosmo aristotelico, negando all’uomo la sua posizione centrale, inducendolo a cercare in se stesso il proprio centro, e nella storia umana il suo effettivo mondo.Il grande merito di Aristotele è comunque quello di aver divulgato una concezione che crede nei limiti dell’umano riponendo la saggezza nella fedeltà all’Essere.Le radici profonde non gelano mai.Forse è per questo che ancora oggi parliamo di paganesimo, di divinità e di pantheon come se nulla fosse cambiato da millenni.Il Paganesimo è stata la forma più autentica di venerazione delle forze della Natura, quella Natura che folgorava, inondava, sbocciava e fruttificava davanti agli occhi ingenui di una umanità ancora pura e aperta all’ignoto. Le donne e gli uomini che per primi lodarono le forze del mondo si avvicinarono ad esse con estremo rispetto, senza vanto e senza superbia.Oggi il paganesimo non è poi tanto diverso da allora, anche se qualcuno preferisce chiamarlo “neopaganesimo”, e gli Dèi sono sempre gli stessi. L’unica cosa che forse è cambiata è la scelta: in una società in cui si da per scontato il monoteismo, è cosa preziosa poter scegliere il da farsi sul proprio percorso spirituale.Chi sono i “neopagani” quindi? Sono persone normalissime che studiano, lavorano, hanno famiglia e bollette da pagare; nulla a che vedere con sette di dubbia fama: solo persone che venerano Artemide, Odino o Giove, a seconda della corrente a cui appartengono (la via Gentile, il Druidismo, la Wicca, il culto Greco, ecc…)In questa rubrica cercheremo di esporre i vari aspetti spirituali e antropologici del Paganesimo antico e moderno.I biologi Maturana e Varela, nel loro libro più noto, L’albero della conoscenza sostengono la tesi dell’autopoiesi, (ovvero dell’autocostruzione) per gradi diversi degli esseri viventi. La loro ipotesi, condivisa da altri eminenti scienziati, è che il primo essere autopoietico (dunque, di primo grado) sarebbe stata la cellula eucariote costituitasi come una società di organuli, ovvero batteri o pezzi di questi. L’unione poi in società della suddetta cellula, fino a formare un nuovo aggregato unitario, avrebbe portato alla formazione degli attuali esseri pluricellulari, che possiamo quindi per questo definire di secondo ordine. Come ulteriore sviluppo degli esseri pluricellulari, quale anche noi uomini siamo, sarebbero in costruzioni degli ulteriori esseri auto- poietici che possiamo identificare con delle intere società.La differenza, secondo i nostri autori, che esisterebbe tra noi, una società di insetti e un qualsiasi organismo pluricellulare consisterebbe sostanzialmente nella diversa autonomia posseduta dai singoli componenti della società di appartenenza.Quindi, noi uomini, come tutti gli altri animali pluricellulari staremmo lentamente, ma inesorabilmente, costruendo questo nuovo essere autopoietico di terzo ordine, che a processo ultimato dovrebbe costituire un’unità superiore. Noi ci staremmo collettivamente trascendendo in una nuova, superiore forma vivente. Non saremmo dunque condannati per l’eternità a rimanere ciò che oggi siamo: a svolgere un insopportabile ruolo di pura e semplice sopravvivenza.Ovviamente, una tale teoria si può condividere o meno. Quello che, invece, a mio parere, è davvero difficile condividere, è la tesi che noi uomini, così evoluti razionalmente, staremmo davvero marciando collettivamente verso un tale obiettivo. Ad un’analisi attenta sembrerebbe piuttosto che gli uomini, dopo aver raggiunto un certo grado di sviluppo di questa nuova unità in fieri, abbiano iniziato a regredire verso un suo sfaldamento, coincidente con una individualizzazione eccessiva, dettata da un ulteriore sviluppo della razionalità.La razionalità, o se preferiamo, la consapevolezza, ha preso ad un certo punto le redini della conoscenza e, quindi, degli obiettivi strategici da raggiungere, togliendole dalle mani dell’emotività che, fino a quel punto, aveva orchestrato la formazione di un nuovo aggregato superiore.Questo sarebbe accaduto perché la primitiva razionalità ha “interpretato” il mondo e noi in esso come un insieme frazionato di enti, limitati nello spazio e nel tempo, e dunque inesorabilmente isolati. Di conseguenza ha continuato ad operare su quelli, non tenendo conto dei legami sentimentali precedentemente costruiti dall’emotività, ritenendoli fino a qualche anno fa delle anomalie perché contrari al miglioramento delle probabilità di sopravvivenza del singolo.La tesi, che vogliamo invece avanzare in questa rubrica “Riflessioni da un paradigma sperimentale” è che la razionalità dovrebbe finalmente prendere coscienza degli obiettivi che la conoscenza emotiva si era in qualche modo prefissata e arrivare a condividerli in perfetta sintonia con quella che dovremmo considerare la nostra intima natura: le nostre legittime aspettative, che non sono, beninteso, le aspettative di un “disegno intelligente” messoci dentro da una divinità, ma lo sviluppo necessario per stabilizzarci e affrontare così al meglio delle possibilità l’avanzata nel futuro.A questo scopo, tutte le riflessioni che verranno fatte, di volta in volta, in questa rubrica, saranno svolte, assumendo come punti fermi del discorso due distinte proposizioni che non appaiono, di primo acchito, di per sé evidenti, ma che ci permetteranno di costruire un nuovo paradigma, in cui costruire teoremi in grado di abbattere molti degli odierni paradossi, in cui la logica ci spinge.Le suddette proposizioni sono:L’individualità è data dalla somma complementare di una soggettività e una socialità, o anche, Individualità = soggettività + socialità;La conoscenza umana è data da un’interazione di emotività e razionalità, considerate come tipologie conoscitive differenti.La prima, specifica, secondo quanto già accennato, che l’individualità è data dalla somma complementare di una soggettività, (ovvero, dall’attuale unità esistenziale che noi tutti siamo, in quanto sviluppo compiuto di una precedente società di cellule) e una socialità (ovvero di una nuova e più ampia unità in fase di formazione, costituita dalle odierne soggettività pluricellulari, che, oltre, dunque a trovare una configurazione idonea alla sopravvivenza, devono anche riuscire a sviluppare legami idonei alla costituzione di una nuova unità più ampia che possiamo chiamare società).Questa proposizione, sostituirebbe l’idea, utilizzata finora dalla razionalità, che l’individualità sia sostanzialmente identica alla soggettività: un nuovo concetto di individualità bivalente, dunque, da mettere al posto di un’individualità monovalente o tout court.Questa nuova base di partenza specifica esplicitamente che la socialità non può essere una caratteristica dovuta alla conoscenza razionale che ci fa uomini, ma che è una prerogativa antecedente della conoscenza emotiva posseduta da tutti gli animali superiori, che purtroppo la razionalità non ha saputo interpretare in maniera corretta, dedicandosi perciò ad una stabilizzazione della soggettività come singolarità e non come società.La seconda proposizione è tesa anch’essa a sostituire una Conoscenza tout court (considerata per lo più solo più complessa di quella degli altri animali) con una Conoscenza ambivalente, costituita dalla somma di due tipologie conoscitive differenti, quella emotiva che nei milioni di anni passati ha aggregato e modellato internamente delle perturbazioni esterne facendole diventare un territorio esterno e quella razionale che utilizza oggi quel territorio per costruirsi mappe comparate di situazioni differenti, al fine di far emergere preventivamente quelle possibili azioni che le trasformerebbero in vista di determinate finalità o, viceversa, simulare quali reali trasformazioni possano derivare da specifiche azioni.Una individualità e una conoscenza sdoppiate nei loro principali aspetti costitutivi ci permettono di capire perché noi uomini possiamo essere tanto diversi gli uni dagli altri, può essendo costituiti sostanzialmente in modo simile. Le ragioni ci vengono offerte dalla possibilità combinatoria di quattro conoscenze specifiche: due conoscenze riferite alla soggettività e due riferite alla socialità, che possono alla fine incidere sulla personalità finale dell’individuo. Che, beninteso, non dovrebbe più considerarsi un mondo a sé, scisso dagli altri, ma un mondo in continua trasformazione, teso a costituire una nuova unità superiore.Di conseguenza, l’unico modo serio di considerare la nostra vita dovrebbe essere quello di identificarla con la filogenesi e non più con l’ontogenesi, che è solo uno stadio di quella. Solo così ci sarebbe possibile guardare razionalmente nel lungo tempo, per “programmare” trasformazioni della personalità che implichino il coinvolgimento di più generazioni.Un’altra interessante e importantissima riflessione che possiamo ricavarne è il senso profondo e lo scopo che dovremmo accordare alla filosofia. Poiché la razionalità “interpreta”, con diversi gradi probabilistici(che spaziano dal fantastico al razionale per antonomasia)la realtà che di volta in volta ci si può mostrare, come pure quella che pensiamo di costruire con le nostre azioni, le probabilità di farci percorrere una strada sbagliata, stravolgendo la nostra intima natura, sono dietro ogni svolta. Se ne ricava, allora,che la razionalità ha bisogno di un meccanismo interno, che verifichi e regoli continuamente le sue stesse “interpretazioni”, in modo che si ritrovino in sintonia con la conoscenza espressa in maniera più deterministica dall’emotività.La Filosofia, quindi, obbedirebbe proprio a questa necessità e consisterebbe allora nello studio dell’accordo, della sintonia che deve necessariamente stabilirsi tra conoscenza emotiva e razionale, affinché la razionalità non ci spinga per lungo tempo, come purtroppo sta facendo oramai da secoli, su strade “chiuse”, che non potranno avere sbocchi nel futuro, sbarrate ad un certo punto da montagne inaccessibili o da abissi insormontabili.La Filosofia potrebbe dunque impedire un ulteriore snaturamento della nostra intima essenza, analizzando i modi di come sia possibile ritrovarsi sempre nei pressi della felicità, intesa come migliore condizione possibile, combinando sapientemente tra loro emozioni fondamentali come il piacere e la gioia.L'aspirazione all'indipendenza economica lo spinse a dedicarsi alla pratica clinica, lavorando per tre anni presso l'Ospedale Generale di Vienna con pazienti affetti da turbe neurologiche. Questa disciplina, essendo molto più remunerativa, gli avrebbe permesso di sposare la sua futura moglie, Martha Bernays. Fu proprio mentre lavorava in questo ospedale, nel 1884, che Freud cominciò gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta.Scoperto che la cocaina era utilizzata dai nativi americani come analgesico la sperimentò anche su se stesso osservandone gli effetti stimolanti e privi, a suo dire, di effetti collaterali rilevanti. La utilizzò in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico, Ernst Fleischl, che era divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore. Ma, la conseguente instaurazione della dipendenza da essa (più pericolosa rispetto a quella da morfina),fece scoppiare un caso che costituì una macchia nella sua carriera, anche in considerazione del fatto che un altro ricercatore, utilizzando i suoi studi, sperimentò la cocaina quale analgesico oftalmico, ricavandone rilevanti riconoscimenti nell'ambito medico internazionale. Rinunciò pertanto alle forti aspettative di ricavare successo da queste ricerche.Ulteriore risultato fu che ne divenne, notoriamente, assiduo consumatore. Il caso di Fleisch, tuttavia, che ebbe numerosi episodi paranoidei, allucinazioni e deliri, spinsero il medico a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina”. Dopo la pubblicazione smise di far uso della sostanza e di prescriverla.Nel 1885 ottenne la libera docenza e ciò gli assicurò facilitazioni nell'esercizio della professione medica. La notorietà e la stima dei colleghi gli permise una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario. È sempre di quest'anno la notizia della distruzione delle sue carte personali, avvenimento che si ripeté nel 1907. Successivamente, le sue carte furono attentamente custodite negli "Archivi Sigmund Freud" e gestite da Ernest Jones, suo biografo ufficiale e da alcuni membri del circolo psicoanalitico. Il lavoro di Jeffrey Moussaieff Masson portò alcuni chiarimenti (nonché una feroce critica) sulla natura del materiale soppresso.Nel biennio 1885-1886 iniziò anche gli studi sull'isteria e con una borsa di studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot. Questi suscitò notevole impressione sull'ancora giovane Freud, sia per i suoi metodi sia per la sua forte personalità.Le modalità di cura dell'isteria attraverso l'ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il suo rientro a Vienna, ma i risultati furono deludenti, tanto da attirarsi addosso le critiche di numerosi colleghi. Il matrimonio con Martha Bernays era stato più volte rimandato a causa di difficoltà che apparivano a Freud insuperabili e quando, il 13 maggio 1886, riuscì finalmente a sposarsi, visse l'avvenimento come una grossa conquista. Appena un anno dopo (1887) nacque la prima figlia, Mathilde seguita da altri cinque figli di cui l'ultima, Anna, diventò un'importante psicoanalista.Nel 1886 iniziò l'attività privata aprendo uno studio a Vienna; utilizzò le tecniche allora in uso, quali le cure termali, l'elettroterapia e l'idroterapia, ricorrendo anche all'applicazione dei magneti, una tecnica in uso fin dal 1700 che si credeva fosse in grado di agire sul sistema nervoso dei pazienti, ma non rilevò risultati apprezzabili. Utilizzò allora la tecnica dell'ipnosi e, per migliorare la stessa, compì un altro viaggio in Francia, a Nancy, ma non ottenne i risultati che si aspettava. Il 23 settembre 1897 venne iniziato "nella comunità fraterna" della Loggia del B'nai B'rith di Vienna, un anno dopo la sua fondazione. Freud era professore di neuropatologia e le teorie sulla psicoanalisi avevano ancora poca eco e considerazione nella scuola di medicina dell'epoca.Una chiave di volta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu l'incontro con Josef Breuer - importante fisiologo che poi, in diverse circostanze, sostenne Freud anche finanziariamente - intorno al caso di Anna O.. Breuer curava l'isteria della paziente attraverso l'ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi invalidanti tra i quali un'idrofobia psicogena. Sono di questo periodo le prime intuizioni sui ricordi traumatici. Il metodo, definito catartico - che fu pubblicato nel 1895 in Studi sull'isteria di Breuer e altri - venne successivamente utilizzato in modo sistematico da Freud.Il disagio della civiltà, edita nel 1929, è invece nobile interprete delle oscure riflessioni sulla natura umana che, in seguito alla Grande Guerra e alla Depressione, tormentarono i circoli culturali. L'uomo decade da valoroso patriota e lavoratore a lupo parricida. I valori sono così ridotti a convenzioni, peraltro disagevoli.Freud fa del "Disagio della civiltà" il manifesto delle più tetre e disilluse analisi. Ecco una citazione sui sentimenti religiosi:«Non ci si può sottrarre all'impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita. Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio generale di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche. Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l'ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranee agli scopi e agli ideali della massa.Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto. Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono. Uno di questi uomini eccezionali, per lettera, si definisce mio amico. Gli avevo mandato il mio piccolo scritto che tratta della religione alla stregua di un'illusione, ed egli mi rispose di concordare in pieno con il mio giudizio sulla religione, ma di dolersi che non avessi giustamente apprezzato la fonte autentica della religiosità.Essa consisterebbe in un particolare sentimento che, quanto a lui, non lo abbandonerebbe mai, che troverebbe attestato da molti altri e che supporrebbe presente in milioni di uomini, ossia in un sentimento che vorrebbe chiamare senso della "eternità", un senso come di qualcosa di illimitato, di sconfinato, per così dire di "oceanico". Tale sentimento sarebbe un fatto puramente soggettivo, non un articolo di fede; non comporterebbe alcuna garanzia d'immortalità personale, ma sarebbe la fonte di quell'energia religiosa che viene captata, immessa in particolari canali, e indubbiamente anche esaurita, dalle varie chiese e sistemi religiosi. Soltanto sulla base di questo sentimento oceanico potremmo chiamarci religiosi, anche rifiutando ogni fede e ogni illusione. Le opinioni espresse dal mio stimato amico, che personalmente ha esaltato una volta in una poesia la magia delle illusioni, mi hanno causato non lievi difficoltà. Per quel che mi riguarda, non riesco a scoprire in me questo sentimento "oceanico". Non è facile trattare scientificamente i sentimenti.Si può tentare di descriverne gli indizi fisiologici. Dove ciò non è possibile - e temo che anche il sentimento oceanico eluda una caratterizzazione siffatta - non resta da far altro che attenersi al contenuto rappresentativo che più immediatamente risulta associato al sentimento. Se ho ben compreso il mio amico, egli allude a ciò che un drammaturgo originale e piuttosto bizzarro offre al suo eroe come consolazione nella prospettiva della morte volontaria: "Fuori di questo mondo non possiamo cadere." Si tratta dunque di un sentimento di indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno. Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere di un'intuizione intellettuale, non certo priva di una sua risonanza emotiva, ma tale comunque da non dover risultare assente neanche da altri atti di pensiero di analoga portata. Per quanto riguarda la mia persona non potrei convincermi della natura primaria di un tale sentimento. Non per questo mi è però lecito negarne la presenza effettiva in altre persone. Occorre soltanto chiedersi se venga correttamente interpretato e se debba essere riconosciuto come fons et origo di tutti i bisogni religiosi.Non ho nulla da proporre che possa contribuire in modo decisivo alla soluzione di questo problema. L'idea che l'uomo debba avere conoscenza della propria connessione con il mondo circostante attraverso un sentimento immediato e fin dall'inizio orientato in tale direzione, appare così strana e si accorda così male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di tale sentimento. Possiamo quindi disporre della seguente linea di pensiero:Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto a ogni altra cosa. Che tale apparenza sia fallace, che invece l'Io abbia verso l'interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in una entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e per la quale esso funge per così dire da facciata, lo abbiamo per la prima volta appreso dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra Io ed Es. Ma verso l'esterno almeno l'Io sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette.»Freud orientò anche i suoi studi sull'antropologia e sul totemismo, sostenendo che il totem riflette la codificazione di un complesso di Edipo relativo alla tribù. Il disagio della civiltà, uno degli ultimi libri di Freud, dedicato all'applicazione delle teorie psicoanalitiche alla società, riprende concetti espressi anche in Totem e tabù, Psicologia delle masse e analisi dell'Io e L'avvenire di un'illusione. Il concetto di nevrosi collettiva, riprende ma in senso molto diverso alcune idee già presentate da Jung (inconscio collettivo).Vengono presentate alcune idee sociologiche oggi abbastanza accettate ed altre più discutibili. Un esempio del primo tipo è il fatto che la repressione della libido da parte della società sia fonte del disagio che ci colpisce e che ci fa sentire limitati, in quanto privati delle soddisfazioni di cui necessitiamo. Freud fa risalire tutto questo alla sua storica contrapposizione tra Io e Super-Io, identificando nel Super-Io la morale sociale che avvilisce l'Io. Il problema della conflittualità interiore alla psiche umana, certo non nuovo nella filosofia occidentale, era stato già posto in termini molto simili - e con la stessa denominazione di "cattiva coscienza" - da Nietzsche nella Genealogia della morale: per entrambi la "civiltà" è riuscita a rendere mansueto un uomo altrimenti aggressivo, limitando le sue pulsioni distruttive ed antisociali, che non possono però essere completamente eliminate. Queste vengono altresì rese pericolosamente capaci di sfogarsi solamente contro il soggetto stesso; Freud adatta questa riflessione nietzscheana alla Seconda topica, ed arriverà perciò a fare del Super-Io l'istanza repressiva, di controllo, che la società ha "inserito" nella stessa psiche dell'uomo. Il Super-Io ha dunque la funzione di limitare, in senso moralista, sia alcune pulsioni sessuali - portando l'individuo alla nevrosi nel caso in cui lo faccia con eccessiva rigidezza - sia l'aggressività umana, in quanto Freud condivide quel filone pessimista dell'antropologia che può essere condensato nella formula "homo homini lupus".Presupposto della metafisica è la ricerca sui limiti e sulle possibilità di un sapere che non può derivare in modo diretto dall'esperienza sensibile. I cinque sensi, infatti, si limitano a recepire passivamente le impressioni derivanti dai fenomeni naturali entro una gamma ristretta di percezioni, e quindi non sono in grado di fornire una legge capace di descriverli, non sono in grado cioè di coglierne l'essenza.Scopo della metafisica, in questo senso, è il tentativo di trovare e spiegare la struttura universale e oggettiva che si ipotizza nascosta dietro l'apparenza dei fenomeni. Sorge pertanto l'interrogativo se una tale struttura, oltre a determinare la realtà, sia in grado di determinare il nostro stesso modo di conoscere, attraverso idee e concetti che trovano corrispondenza nella realtà.Secondo questa linea interpretativa, solo nel nostro intelletto è possibile formulare quei criteri di razionalità e universalità che ci permettono di conoscere il mondo: la semplice «sensazione in atto», infatti, «ha per oggetto cose particolari, la scienza invece ha per oggetto gli universali e questi sono, in un certo senso, nell'anima stessa»Ecco dunque la radicale contrapposizione, propria dei grandi filosofi metafisici, da Parmenide, Socrate,Platone, Aristotele, fino ad Agostino, Tommaso, Cusano, Campanella, ecc., tra il sapere acquisito dei sensi, e il sapere proprio dell'intelletto.Secondo questa scuola di pensiero, quindi, non ci può essere vera conoscenza se questa non scatuirisce dall'intelligenza, la quale però, per attivarsi, deve anzitutto prendere coscienza di sé:se l'intelletto fosse incapace di pensare se stesso, non potrebbe neppure prendere coscienza della verità, né coscienza di poterla mai raggiungere.Il pensiero di sé, pertanto, è stato assunto spesso come base di partenza, a cominciare dalla sua capacità di rendere possibile un sapere immediato, universale e assoluto, perché in esso il soggetto è immediatamente identico all'oggetto, essendo l'io che intuisce se stesso.Almeno fino a Cartesio, a partire dal quale il tema dell'autocoscienza sarà ricondotto entro una dimensione più prettamente soggettiva e psicologica, l'intuizione conoscitiva di sé resterà connessa alla questione ontologica preponderante di un Essere da porre a fondamento della propria intima essenza.Anche nella filosofia moderna tuttavia non mancano casi, ad esempio in Spinoza, Leibniz, Fichte, in cui di volta in volta la soggettività risulta legata a tematiche ontologiche.In generale l'intuizione, o l'appercezione,è stata posta come origine e traguardo di ogni metafisica, e considerata superiore sia al pensiero razionale che alla conoscenza empirica: il pensiero razionale infatti si basa su una forma mediata di sapere, nella quale il soggetto giunge ad apprendere l'oggetto solo in seguito ad un calcolo o un'analisi razionale, e dove pertanto essi sono separati; analogamente, una conoscenza di tipo empirico risulta mediata dai sensi, e dunque in essa, ancora una volta, soggetto e oggetto risultano separati.In considerazione di ciò si comprende come la maggior parte dei filosofi metafisici postulasse una differenza non solo tra coscienza e percezione sensibile, ma anche tra intelletto e ragione.L'intelletto è il luogo in cui propriamente si produce l'intuizione, ed è pertanto superiore alla ragione perché è il principio primo senza il quale non si avrebbe conoscenza di nulla; mentre la ragione è solo uno strumento, un mezzo che permette di comunicare e di avvicinarsi discorsivamente alla visione intuitiva dell'universale.

Il Novecento filosofico porterà, seppur per vie diverse e sulla base di teorizzazioni eterogenee o fra loro incompatibili, altri pesanti attacchi alla metafisica. Tra i più illustri antimetafisici va indubbiamente ricordato Ludwig Wittgenstein, che muovendo dall'elaborazione della logica di Frege e Bertrand Russell, e cercando di sancire definitivamente i limiti del linguaggio, individuò nella prassi metafisica la trascendenza dei limiti di significanza del linguaggio umano; celebre è la sua definizione di metafisica, indicata come qualcosa che sorge "quando il linguaggio fa vacanza". Tradotto in termini immediati, Wittgenstein riteneva che le questioni trattate dalla metafisica non potessero avere in nessun modo una soluzione definitiva, in quanto più che problemi filosofici esse concernevano problemi linguistici, sorti sulla base di un fraintendimento logico delle pertinenze del linguaggio stesso. Da cui la convinzione wittgensteiniana che i problemi metafisici non fossero nemmeno problemi, poiché un problema per essere posto, deve essere chiaramente e inequivocabilmente formulato.L'antimetafisica di Wittgenstein verrà raccolta poi dal Circolo di Vienna e dal Positivismo logico, che ne approfondirà ed integrerà alcuni aspetti impliciti, nel tentativo di edificare una filosofia il più possibile fondata su teorie e pratiche della scienza formale; formulazione che si sostanzia nella teoria del verificazionismo.In seguito alcuni filosofi tra cui principalmente Karl Popper, sconfesseranno la stessa teoria verificazionista (fondata sull'assunto che ogni enunciato filosofico dovrebbe essere passibile di verifica empirica), come pura metafisica. La verifica di tutti i casi positivi non può in nessun caso provare alcunché, né può essere praticamente applicata; molto più utile alla metodologia scientifica è la ricerca di casi falsificanti, ovvero sconfessanti la teoria originaria. Popper assumerà nei riguardi della metafisica un atteggiamento più moderato rispetto ai neopositivisti logici, sostenendo che essa può trovare cittadinanza presso la pratica filosofica, a patto che dalla speculazione filosofica sia poi possibile desumere teorie scientifiche falsificabili. Le proposizioni metafisiche per Popper hanno tra l'altro perfettamente un senso, nella misura in cui seguono il metodo rigoroso della logica formale, cioè mostrano di essere interiormente coerenti. Non hanno dunque soltanto un mero valore suggestivo o soggettivo.Da un altro punto di vista muove la critica di Heidegger alla metafisica, che tuttavia va piuttosto considerata come una prospettiva di interpretazione storico-filosofica, piuttosto che una critica volta a negarne le ragioni e la necessità. In particolare, Heidegger concepisce la storia della metafisica come una manifestazione nel pensiero della storia dell'essere stesso: l'essere si dà, si rivela nel pensiero attraverso le definizioni che di esso hanno via via dato i vari pensatori, le varie forme culturali, concependolo ad es. come Idea, come Valore, come Ente supremo, come Monade, come Volontà di potenza, fino a ridurlo a Niente, cioè letteralmente al non-ente, a un che di ignoto e inconoscibile (nichilismo). La critica di Heidegger alla metafisica è quindi in realtà un tentativo di ripensare l'Essere nella sua originarietà, riportandosi al di qua di tutta la tradizione filosofica che, da Platone in poi, elaborando la metafisica ha condotto l'Essere al suo oblio: la metafisica diviene così uno dei modi entro cui si è manifestato, storicamente, l'Essere stesso, paradossalmente mediante il suo proprio nascondimento concettuale.Una certa pertinenza con il tema delle critiche alla metafisica (e più in generale alla filosofia tradizionale) nate in ambito neopositivista, ha l'articolo di Rudolf Carnap, "Il superamento della metafisica tramite l'analisi logica del linguaggio (1931)". Carnap sostiene che in un linguaggio deve essere presente un vocabolario ed una sintassi, ovvero un gruppo di parole e delle regole che permettano la costruzione di enunciati e ne legiferino la costruzione stessa; concordemente a ciò egli sostiene che dal linguaggio è anche possibile trarre "pseudo-proposizioni" ovvero enunciati correttamente formati, ma contenenti parole prive di significato, oppure enunciati composti di parole in sé significanti, ma costruiti nella violazione delle regole sintattiche. Carnap analizza nel suo articolo un paragrafo del libro "Cos'è la metafisica?" del filosofo tedesco Martin Heidegger:Ma allora perché ci preoccupiamo di questo niente? La scienza appunto rifiuta il niente e lo abbandona come nullità.La scienza non vuol saperne del niente.Che ne è del niente? C'è il niente solo perché c'è la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c'è la negazione e il non solo perché c'è il niente? Il niente è la negazione completa della totalità dell'ente.L'angoscia rivela il niente.L'analisi di Carnap sostiene che non è possibile trarre un enunciato osservativo che possa verificare le proposizioni contenute in questo paragrafo. Inoltre Carnap accusa Heidegger di utilizzare la parola "nulla" come se corrispondesse ad un oggetto, essendo invece essa la negazione di una proposizione possibile.In linea generale la critica rivolta da Carnap alla metafisica è dunque quella di esprimersi per "pseudo-proposizioni", ovvero proposizioni solo apparentemente dotate di significato. La svalutazione della metafisica non viene tuttavia generalizzata da Carnap, il quale le riconosce un grande ruolo ad esempio nelle varie arti, ciò che le nega è la possibilità di avere una funzione conoscitiva.Ancora, nel Novecento russo, la metafisica venne interpretata secondo i termini di una originale metafisica concreta dal pensatore e mistico Pavel Aleksandrovič Florenskij.Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicchè, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressochè tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E' evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. (Aristotele, Metafisica I,2,982b)La giusta maniera di procedere da sè o di essere condotti da un altro nelle cose d'amore é questa: prendendo le mosse delle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza di null'altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che é il bello in sè.(Platone, "Simposio")Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l'origine della filosofia. (Aristotele, "Protrettico")Io vi insegno il superuomo. L' uomo é qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sè:e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l' uomo?Che cosa é per l'uomo la scimmia?Un ghigno o una vergogna dolorosa.E questo appunto ha da essere l' uomo per il superuomo:un ghigno o una dolorosa vergogna.Avete percorso il cammino dal verme all' uomo,e molto in voi ha ancora del verme.In passato foste scimmie,e ancor oggi l' uomo é più scimmia di qualsiasi scimmia.E il più saggio tra voi non é altro che un'ibrida disarmonia di pianta e spettro.Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta?Vedete, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà vi dica: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure! Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell'imperscrutabile maggior conto che del senso della terra! (Nietzsche, "Così parlò Zaratustra")Grande e bello spettacolo veder l'uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei suoi propri sforzi; disperdere, con i lumi della ragione, le tenebre in cui la natura l' aveva avviluppato; innalzarsi al di sopra di se stesso; lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti: percorrere a passi di gigante, al pari del sole, la vasta distesa dell'universo; e, ciò che é ancor più grande e difficile, rientrare in se stesso per studiarvi l'uomo e conoscerne la natura, i doveri e il fine.Sicuri dunque e a testa alta, in qualsiasi luogo ci toccherà di andare, avviamoci con passo intrepido, misuriamo ogni angolo di terra, quale esso sia: entro i confini del mondo non vi può essere esilio di sorta; nulla infatti che si trovi in questo mondo é estraneo all'uomo. Da ogni terra lo sguardo si solleva al cielo sempre ad ugual distanza, tutto ciò che é divino dista sempre del medesimo intervallo da tutto ciò che é umano. (Seneca, "De consolatione")Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perchè é scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figure matematiche, attissime per tal lettura.In luogo del gran numero di regole di cui si compone la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare neppure una volta di osservarle. La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne. La seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente. La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l'un l'altra. E l'ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla.Ho lottato, é molto: credetti poter vincere ( ma alle membra venne negata la forza dell'animo ), e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. E' già qualcosa l'essersi cimentati; giacchè vincere vedo che é nelle mani del fato. Per quel che mi riguarda ho fatto il possibile, che nessuna delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita.Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti. Per esempio, la morte non è nulla di terribile (perché altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate): ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l'ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l'ha completata non incolpa né gli altri né se stesso.Essere o non essere;questo é il problema:se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi,i sassi e i dardi dell' iniqua fortuna,o prender l' armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli.Morire:dormire;nulla di più;e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne,é soluzione da accogliere a mani giunte.Morire,dormire,sognare forse: ma qui é l' ostacolo, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale,ci trattiene:é la remora questa che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti.Chi vorrebbe,se no,sopportar le frustate e gli insulti del tempo,le angherie del tiranno,il disprezzo dell' uomo borioso,le angosce del respinto amore,gli indugi della legge,l' oltracotanza dei grandi,i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri,quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale?Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca,se non fosse il timore di qualche cosa,dopo la morte,la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore,a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d' altri che non conosciamo?Così ci fa vigliacchi la coscienza;così l' incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero.E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso:e dell' azione perdono anche il nome.La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe. Uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta, una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell'intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto. Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme strutturazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste classi, ulteriori specifiche classificazioni. La moderna società borghese, sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi.L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E' con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale.Due cose riempono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambe le cose non posso cercarle e semplicemente supporle come fossero nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale (ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il mio valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità, nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, perlomeno quanto può essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa vita, ma si estende all'infinito. Però, stupore e rispetto possono sì spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza.Tutta la bellezza e la magnificenza che abbiamo prestato alle cose reali e immaginate, io voglio rivendicarla come proprietà e opera dell'uomo: come la sua più bella apologia. L'uomo come poeta, pensatore, Dio, amore, forza; ammiriamo la sua regale generosità, con cui ha fatto doni alle cose per impoverire se stesso e sentirsi miserabile ! Finora il suo maggiore disinteresse fu questo, che egli ammirò e adorò e seppe nascondere a se stesso che egli stesso aveva creato ciò che ammirava.Voglio capire come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie ... l'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere.La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens. Ogni uomo infine, all'infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un "filosofo", un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un'indefettibile fiducia in esso.Perchè la morte ti strappa questi gemiti?Perchè se hai potuto godere a tuo piacimento della vita trascorsa,se tutti questi godimenti sono stati come radunati in un vaso forato,se non sono scorsi via e perduti senza profitto,perchè,come un convitato sazio,non ritirarti dalla vita?Perchè,povero sciocco,non prenderti di buona grazia un riposo che nulla turberà?Se,invece,tutto ciò di cui hai a lungo goduto é trascorso in pura perdita,se la vita ti é di peso,perchè volerla prolungare di un tempo che a sua volta deve terminare in una triste fine e dissiparsi tutto senza profitto?Non posso immaginare ormai altre nuove invenzioni per farti piacere:le cose vanno sempre allo stesso modo.Conoscere la ragione come la rosa nella croce del presente e in tal modo godere di questo, questa intellezione razionale è la conciliazione con la realtà, che la filosofia procura a coloro, nei quali una volta è affiorata l'intera esigenza di comprendere, e altrettanto di mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva, così come di stare con la libertà soggettiva non in un qualcosa di particolare e accidentale, bensì in ciò che è in sè e per sè.Il fondamento della critica alla religione é: è l’uomo che fa la religione, e non è la religione che fa l’uomo.Infatti, la religione è la coscienza di sè e il sentimento di sè dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un'entità astratta posta fuori del mondo.

 

Concludo dicendo che:

L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società.Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo punto d’onore spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione.Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, è l'anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione approda alla teoria che l'uomo è per l'uomo l'essere supremo.Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di chiunque altro esposto all'errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni.Infine, considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo. Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non esistesse.E mi svolse (fors'anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia. Di tratto in tratto, il brav'uomo s'interrompeva per domandarmi: - Dorme, signor Meis? E io ero tentato di rispondergli:Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.Ma poiché l'intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive.A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta:di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? - Dorme, signor Meis? - Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino.Ah, bene, Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe?Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose.Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda… Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda).Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo.Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità.Abbiamo escluso la Filosofia da una gran parte del dominio che si supponeva appartenerle. Il dominio che rimane è quello occupato dalla scienza. La scienza tratta delle coesistenze e sequenze tra i fenomeni: essa li raggruppa da prima per formare generalizzazioni di un ordine semplice o basso, e si eleva a grado a grado a più alte e più estese generalizzazioni. Ma se è così, dove rimane un campo per la Filosofia? La risposta è questa: Filosofia può essere ancora propriamente il titolo da applicarsi alla conoscenza della più alta generalità. […] Le verità della filosofia hanno dunque con le più alte verità scientifiche la stessa relazione che ciascuna di queste ha con le verità scientifiche inferiori.Come ogni più ampia generalizzazione della Scienza comprende e consolida le più ristrette generalizzazioni del suo dominio; così le generalizzazioni della Filosofia comprendono e consolidano le più ampie generalizzazioni della Scienza. Perciò la conoscenza che costituisce la Filosofia è nel genere l’estremo opposto di quella che l’esperienza da prima accumula.Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa; similmente, all'apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua anche sotto la spinta dell'altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell'unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l'una non meno dell'altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell'intero.Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può essere cioé orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità».Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuole certo dir questo.Ma v’è una differenza incolmabile, tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale – in termini religiosi – suona: ‘Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio’, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni.E' davvero incredibile come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umanità. E' un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gli uomini somigliano a orologi che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta che un uomo viene generato e partorito, è l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ripetere ancora una volta, fase per fase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un breve sogno dell'infinito spirituale naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre.Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere pagato dall'intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo temuta, finalmente venuta.Per questo ci fa così subitamente malinconici la vista di un cadavere. La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.Imperocchè l'agitazione e il tormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene da commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia.Se l’essere umano è per l’uomo l’essere sommo anche nella pratica la legge prima e suprema sarà l’amore dell’uomo per l’uomo. "Homo homini deus est": questo è il nuovo punto di vista il supremo principio pratico che segnerà una svolta decisiva nella storia del mondo.In questo sottile momento in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Cosi' persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che e' umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dei e solleva i macigni.Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile nè futile.Ogni granello di quella pietra ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.Indagare e dubitare sono, fino ad un certo punto, termini sinonimi. Noi indaghiamo quando dubitiamo; ed indaghiamo quando cerchiamo qualcosa che fornisca una risposta alla formulazione del nostro dubbio. Pertanto è peculiare della natura stessa della situazione determinata che suscita l'indagine, di essere fonte di dubbio; o, in termini attuali anzichè potenziali, di essere incerta, disordinata, disturbata. La qualità peculiare di ciò che investe i materiali dati, costituendoli in situazione, non è esattamente un'incertezza generica; è una dubbiosità unica nel suo genere che fa si che la situazione sia appunto e soltanto quella che è. E' quest'unica qualità che non soltanto suscita la particolare indagine intrapresa ma esercita anche il controllo sopra i suoi speciali procedimenti.Altrimenti nell'indagine un qualunque processo potrebbe aver luogo e riuscirvi fecondo con altrettanta probabiltà che qualunque altro.Ove una situazione non sia univocamente qualificata nella sua propria indeterminatezza, si da uno stato di completo panico: la risposta ad esso assume la forma di attività palesi cieche e selvagge. Enunciando la cosa da un punto di vista personale, noi abbiamo "perso la testa". Una grande varietà di parole serve a caratterizzare le situazioni indeterminate. Esse sono disturbate, penose, ambigue, confuse, piene di tendenze contrastanti, oscure, ecc E' la situazione che ha questi caratteri. Noi siamo dubbiosi perchè la situazione è nella sua essenza dubbiosa.Perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili al livello dell'osservazione scientifica la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo, dal momento che ci rallegriamo osservando le loro immagini poiché al tempo stesso vi riconosciamo l'arte che le ha foggiate, la pittura o la scultura, se non amassimo ancora di più l'osservazione degli esseri stessi così come sono costituiti per natura, almeno quando siamo in grado di coglierne le cause. Dunque, non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v'è qualcosa di meraviglioso. E come Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma che una volta arrivati, ristavano vedendo che si scaldava presso la stufa della cucina (li invitò ad entrare senza esitare: "anche qui - disse - vi sono dei"), così occorre affrontare senza disgusto l'indagine su ognuno degli animali, giacchè in tutti v'è qualcosa di naturale e di bello. Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello. Se poi qualcuno ritenesse indegna l'osservazione degli altri animali, nello stesso modo dovrebbe giudicare anche quella di se stesso; non è infatti senza grande disgusto che si vede di che cosa sia costituito il genere umano: sangue, carni, ossa, vene, e parti simili.Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare.Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell' Arpinate.Innanzitutto , va detto che gran parte dell' opera di Cicerone é pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione dei valori tradizionali.Dietro la vicenda intellettuale dell' Arpinate si profila una società attraversata da spinte contrastanti , spesso laceranti: l' afflusso di ricchezze dai paesi conquistati ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato repubblicano.D' altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche é dare una solida base ideale , etica , politica a una classe dominante ( gli optimates ) il cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure , cui il rispetto per la tradizione nazionale ( mos maiorum ) non impedisca l' assorbimento della cultura greca ; una classe che l' assolvimento dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura , nè , in generale , di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine di humanitas . Quella di Cicerone , chiaramente , rimane un' ottica di parte , legata al progetto di egemonia di un blocco sociale ( sostanzialmente i ceti possidenti ) : egli é fermamente contrario a qualsiasi progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti , Cicerone scorge la via d' uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti abbienti , senatori e cavalieri ( concordia ordinum ) . La sua , in fin dei conti , é e rimane una natura moderata in campo politico . In un secondo tempo , però , Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti . In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre , la concordia ordinum si era rivelata fallimentare : Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum , cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti , amanti dell' ordine sociale e politico , pronte all' adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia . Il dovere dei boni é quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici : essi devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa . Il progetto di concordia dei ceti abbienti , nelle due diverse formulazioni che Cicerone ne diede , significò in ogni caso un tentativo almeno embrionale ( é ovvio che i boni preferirono in ogni caso tutelare i propri interessi ) di superare in nome del superiore interesse della collettività , la lotta tra i gruppi e le fazioni all' epoca dominanti la scena politica romana . Tuttavia il pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni : da tempo si dibatteva in Grecia se l' oratore dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto , della filosofia e della storia . In gioventù Cicerone aveva iniziato , senza portarlo a termine , un trattatello di retorica , il De inventione ( inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell' oratore ) . Un interesse particolare riveste il proemio , dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia ( cioè cultura filosofica ) , quest' ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell' oratore : l' eloquenza priva di sapientia ha portato più volte gli stati in rovina . La soluzione ciceroniana é pensata esplicitamente per la società romana : molti anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore , una delle sue opere " più curate " . Composto nel 55 , durante un periodo di ritiro dalla vita politica , mentre Roma era travagliata dalle bande di Clodio e di Milone , é ambientato nel 91 , al tempo dell' adolescenza di Cicerone ; sotto forma di dialogo ( sulle orme di Platone ) vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell' epoca , fra i quali spiccano Marco Antonio ( 143 - 87 a.C. ) , nonno del triumviro che fece uccidere l' Arpinate , e Lucio Licinio Crasso , portavoce del pensiero di Cicerone stesso . Nel I libro Crasso sostiene , per l' oratore , di una vasta formazione culturale . Antonio gli contrappone l' ideale di un oratore più istintivo e autodidatta , la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali , sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l' esempio degli oratori precedenti . Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche , ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio ( la raccolta di materiale ) , la dispositio ( l' organizzazione del materiale ) e la memoria ( l' insieme delle tecniche per memorizzare i concetti ) . Compare anche un personaggio spiritoso e caustico , Cesare Strabone , al quale é assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito . Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio , cioè in genere all' actio ( recitazione ) dell' oratore , non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica . La scelta del 91 per l' ambientazione del dialogo ha un preciso significato : é l' anno stesso della morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario ( l' homo novus ) e Silla , nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni altri degli interlocutori principali , fra cui lo stesso Antonio . La crisi dello stato é un'ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l' ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni , la villa tuscolana di Crasso . La consapevolezza della terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri . Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi , Cicerone si é sforzato di ricreare l'atmosfera degli ultimi giorni di pace dell' antica repubblica . Il modello a cui si ispira é sostanzialmente quello del dialogo platonico : con gesto aristocratico , alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano . A sintetizzare la tesi principale di tutta l' opera potrebbe valere un' espressione di Sulpicio , uno dei partecipanti al dialogo : " non l' eloquenza é nata dalla teoria retorica , ma la teoria retorica dall' eloquenza " . Si richiede quindi una vasta preparazione culturale ( soprattutto filosofica - morale ) all' oratore : bisogna che egli sia versatile , abile a sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento , riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio ; ma questo di per sè non basta : il tutto deve essere accompagnato dalla virtus , la quale deve mantenere l' intero sistema oratorio ancorato all' apparato dei valori tradizionali , in cui la " gente perbene " si riconosce . Crasso insiste perchè probitas ( integrità )e prudentia ( saggezza ) siano saldamente radicate nell' animo di chi dovrà apprendere l' arte della parola : consegnarla a chi mancasse di queste virtù sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati . La formazione dell' oratore viene quindi a coincidere con quella dell' uomo politico della classe dirigente . Egli dovrà servirsi della sua abilità oratoria non per blandire il popolo copn proposte demagogiche , ma per piegarlo alla volontà dei boni . Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più esile , l' Orator , aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica . Disegnando il ritratto dell' oratore ideale ( come Platone aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico ) , l' Arpinate sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi : probare ( argomentare la propria tesi ) , delectare ( produrre un effetto piacevole sull' uditorio ) , flectere ( muovere le emozioni tramite il pathos ) . Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l' oratore dovrà sapere alternare : umile , medio , e elevato o " patetico " . Nel 44 , poi , Cicerone compone i Topica , ispirati all' opera omonima di Aristotele , i quali trattano dei topoi , i luoghi comuni ai quali può far ricorso l' oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso . Ma possono farvi ricorso anche i filosofi , gli storici e i giuristi . Il modello del dialogo platonico ritorna poi , con maggiore evidenza , nel De re publica , al quale Cicerone si dedicò assiduamente fra il 54 e il 51 . Non cercò , tuttavia , di costruire a tavolino uno stato ideale , come Platone aveva fatto nella sua " Repubblica " : con gesto che gli diventava sempre più consueto , l' Arpinate si proiettò nel passato , per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni . Il dialogo si svolge nel 129 , nella villa suburbana di Scipione Emiliano , che con l' amico e collaboratore Lelio é uno dei principali interlocutori . La ricostruzione della trama é purtroppo resa fortemente ipotetica , soprattutto per alcune sezioni , dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo ci é stato conservato . Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di governo ( monarchia , aristocrazia , democrazia ) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estreme , rispettivamente della tirannide , della oligarchia e della olocrazia ( governo della " feccia " del popolo ) . Scipione mostra come lo stato romano dei maiores ( gli antenati ) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali : l' elemento monarchico si rispecchia nell' istituzione del consolato , l' elemento aristocratico nell' istituzione del senato , l' elemento democratico nell' istituzione dei comizi . Il libro II si occupa della costituzione romana , mentre il III tratta della iustitia , ed é in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione dell' acutissima critica che l' accademico Carneade aveva svolto dell' imperialismo romano : la critica si incentrava soprattutto sul concetto di " guerra giusta " , ricorrendo al quale i Romani , col pretesto di soccorrere i loro alleati , ( cioè sudditi ) in difficoltà , avevano progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera d' influenza . Il IV libro si occupa dell' educazione dei cittadini e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti . Nei libri IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae ( rettore e governatore dello stato ) o princeps . Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione , da parte di Scipione l' Emiliano , del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l' avo , Scipione Africano , per mostrargli , dall' alto del cielo , la piccolezza e l' insignificanza di tutte le cose umane , anche della gloria terrena , e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell' aldilà le anime dei grandi uomini di stato : questa parte , che costituisce la sezione finale dell' opera , va generalmente sotto il nome di Somnium Scipionis . La teoria del regime misto cui si appella Scipione risaliva agli stessi Platone ( vedi le " Leggi " ) e Aristotele . Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre in inganno : il singolare si riferisce al " tipo " dell' uomo politico eminente , non alla sua unicità ( come invece sarà invece per Machiavelli ) ; in altre parole , l' Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano . Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche , principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza : é questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato . Cicerone disegna così l' immagine di un dominatore - asceta , rappresentante in terra della volontà divina , rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia verso le passioni umane . L' ideale ciceroniano era tuttavia difficilmente realizzabile : probabilmente proprio la convinzione della necessità di un governo di maggiore autorevolezza , e d' altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l' accentramento di enormi poteri nelle mani di pochi capi , spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri , nella speranza di mantenere l' operato sotto il controllo del senato . Ispirandosi ancora al modello di Platone , che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi , l' Arpinate completò il dialogo sullo stato col De legibus , iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita . L' azione stavolta non é posta in un' epoca passata , ma nel presente , e interlocutori sono lo stesso Cicerone , il fratello Quinto , e il grande amico Attico . L' ambientazione é nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti , raffigurati secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo modello soprattutto nel Fedro di Platone . Quinto é tratteggiato come un ottimate estremista , Cicerone come un conservatore moderato , Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche . Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non é sorta per convenzione , ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed é perciò data da Dio . Nel libro II l' esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione utopica ( alla Platone ) ma sulla tradizione legislativa romana , che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale . Nel libro III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze . In gioventù l' Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi più diversi , e ad interessarsi di filosofia continuò per tutta la vita : a scriverne , tuttavia , iniziò solo nel 46 , con l' operetta sui Paradossi degli Stoici , dedicata a Marco Bruto e incentrata soprattutto sull' esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l' opinione comune . Ma é nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone , quali la morte della figlia Tullia . L' Hortensius , perduto , era un' esortazione alla filosofia , sul modello del Protrettico di Aristotele . Gli Academica , che trattavano i problemi gnoseologici , ebbero una duplice redazione : la prima , i cosiddetti Academica priora , in due libri ; la seconda , gli Academica posteriora , in quattro libri . Il De finibus bonorum et malorum ( I limiti del bene e del male ) é da alcuni considerato il capolavoro filosofico di Cicerone : tratta questioni etiche , e cioè il problema del sommo bene e del sommo male , che é affrontato in 5 libri , comprendenti 3 dialoghi . Nel primo é esposta la teoria degli epicurei , cui segue la confutazione ciceroniana ; nel secondo si mette a confronto la teoria stoica con le teorie accademica e peripatetica ; nel terzo é esposta la teoria eclettica di A. Ascalona , maestro di Cicerone e di Varrone , la più vicina al pensiero dell' autore . Ancora di questioni etiche tratta un' altra fra le maggiori opere filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata , le Tusculanae disputationes , dedicate anch' esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo . L' opera , in 5 libri , che segna il massimo avvicinamento dell' Arpinate alle tesi propugnate dagli stoici , é condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore . Nei singoli libri sono trattati , rispettivamente i temi della morte , del dolore , della tristezza , dei turbamenti dell' animo e della virtù come garanzia della felicità : siamo dunque di fronte ad una grande summa dell' etica antica . Nelle Tusculanae l' Arpinate cerca una risposta ai suoi personali interrogativi , una soluzione ai suoi dubbi : di qui la profonda partecipazione emotiva dell' autore agli argomenti trattati . Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi , il De natura deorum , in 3 libri , anch' esso dedicato a Bruto ; il De divinatione , in 2 libri , e il De fato giuntoci incompleto . Le due ultime opere sono presentate esplicitamente dall' autore come integrative e complementari rispetto alla prima . Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche . L' impegno ciceroniano nell' attività filosofica é soprattutto moralistico , e non dimentica i doveri del cittadino al servizio dello stato . Interessante in questi dialoghi é il ricercare sempre la conseguenza pratica , la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche : si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana . In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì , nei suoi anni maturi , al probabilismo degli Accademici , una sorta di scetticismo pragmatico , che senza negare l' esistenza di una verità oltre i fenomeni , si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile , utile a orientare l' azione e ad essa funzionalizzata . Nel libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere l' esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni : se tutto é opinabile , allora non vi sarà più nè certezza nè verità . L' Arpinate replica che anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità ; nemmeno pensa , come gli scettici che esistano più verità . In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza : astenendosi egli stesso dal formulare un' opinione precisa , si sforza di esporre le diverse opinioni possibili , e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre . L' eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso , che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico . La stessa ideologia della humanitas , alla cui elaborazione l' Arpinate diede un contributo notevolissimo , invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza : dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro turno per prendere la parola : siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle loro un arricchimento culturale . Ma c' é un caso in cui il contraddittorio e la confutazione , pur senza scadere nella zuffa , si fanno talora più violenti e indignati : l' eclettismo ciceroniano , come già anticipato , mostra una chiusura radicale verso l' epicureismo , alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum . I motivi dell' avversione ciceroniana verso l' epicureismo sono soprattutto due , tra loro strettamente connessi : in primo luogo la filosofia epicurea porta al disinteresse per la vita politica ( " vivi di nascosto " era il loro motto ) , mentre dovere dei boni é l' attiva partecipazione alla vita pubblica ; inoltre l' epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità ( per quanto non ne neghi l' esistenza ) e indebolisce così i legami con la religione tradizionale , che per Cicerone rimane la base fondamentale dell' etica . Va poi detto che l' Arpinate vedeva negativamente la ricerca del piacere ( voluptas ) propugnata dagli epicurei , i quali non esitavano a collocarla tra le somme virtù : ora é evidente che se ogni cittadino vivesse " di nascosto " alla ricerca del piacere personale lo stato si sfascerebbe ; inoltre mettere la voluptas tra le virtù é come mettere una prostituta tra signore per bene , dice Cicerone . Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso dei dialoghi di argomento religioso e teologico . Nel De natura deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell' indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane . Successivamente viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale , mentre in uno dei libri successivi ( il III ) l' Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico . Più interessante risulta il De divinatione , anche perchè legato a vicende più contemporanee a Cicerone , che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti inferiori . Tornando al De finibus bonorum et malorum , Cicerone , dopo aver confutato la tesi epicurea , esamina quella stoica : riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più solide all' impegno dei cittadini verso la collettività , ma tuttavia si sente lontano per cultura e gusti : il loro rigore etico gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana . Cicerone , invece , apprezza le tesi scettiche : la verità é per lui irraggiungibile , e l' uomo si può solo avvicinare ad essa applicando la virtus ; l' eclettismo ciceroniano non a caso si basa su ideali scettici : dato che la verità é irraggiungibile , tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da ognuna di esse il meglio . Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia . Nel Cato maior de senectute Cicerone trasfigura l' amarezza per una vecchiaia la quale , oltre al decadimento fisico e all' imminenza della morte , sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico . Tuttavia Cicerone , immedesimandosi nell' austera figura di Catone il Censore , tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l' otium e la tenacia dell' impegno politico , due opposte esigenze che l' Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto l' arco della sua vita . Diversa , più combattiva , é l' atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia , il quale , all' indomani dell' uccisione di Cesare , accompagna il rientro di Cicerone sulla scena politica . Il dialogo é immaginato svolgersi nel 129 , lo stesso anno del De re publica : pochi giorni dopo la scomparsa di Scipione nel corso delle agitazioni graccane . Rievocando la figura dell' amico scomparso , Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell' amicizia stessa . Amicitia per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico . Nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato aristocratico , il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici . La novità dell' impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas : a fondamento dell' amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti a vasti strati della popolazione . L' amicizia propagandata da Lelio non é solo un' amicizia politica : si avverte in tutta l' opera un disperato bisogno di rapporti sinceri , quali Cicerone , preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica , potè forse trovare solo in Attico . La stesura del De officiis venne iniziata probabilmente nell' autunno del 44 : si tratta stavolta di un trattato,non di un dialogo,dedicato al figlio Marco , allora studente di filosofia ad Atene.L' opera é il prodotto di un' elaborazione rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche : mentre sta combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina definitiva,Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro,indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all' aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società La base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio.Nel de officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica.I 3 libri di cui il De officiis é composto trattano rispettivamente dell' honestum , dell' utile e del conflitto tra di loro.Lo stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio : le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali . La virtù fondamentale per Panezio era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla prima spetta di " dare a ciascuno il suo ", la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo.La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani,che,attraverso gli officia e l' elargizione nei confronti dei concittadini,sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato ; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi : può essere strumento di corruzione , infatti , il donare denaro oppure l' effettuare benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse.Perciò l' Arpinate sottolinea con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la grandezza d' animo;ebbene,bisogna riprende questa concezione , ma , paradossalmente , a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni,come gli onori,la ricchezza,il potere.

 

 

Questo è solo il titolo, domani vi posterò il testo completo.

Modificato da Raikkonen

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Aspetterò e, soprattutto, leggerò.

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:sbadiglio che sta a significare la mia dipartita verso il letto:

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